Si è svolto lunedì 30 maggio, presso il nuovo polo della comunicazione della Diocesi di Ascoli Piceno, il IX Meeting Nazionale dei Giornalisti. L’incontro, moderato dal presidente nazionale UCSI, Vincenzo Varagona, ha registrato due momenti importanti: prima il convegno dal titolo “Ascoltare con l’orecchio del cuore” e poi l’inaugurazione del polo della comunicazione diocesano.
Ad aprire i lavori don Giampiero Cinelli, Direttore dell’Ufficio Comunicazioni Sociali, che, dopo aver salutato i presenti, ha voluto rivolgere un ringraziamento speciale: “Prima di iniziare vorrei ringraziare Simone Incicco, ideatore del meeting nove anni fa, che si è molto prodigato affinchè si svolgesse regolarmente ogni anno. E così è stato: prima a Grottammare in presenza e poi nell’ultimo biennio in modalità a distanza a causa della pandemia. L’anno scorso prese parte al Meeting anche il Presidente del Parlamento Europeo, il compianto David Sassoli.
Oggi finalmente si torna in presenza e siamo davvero molto felici di essere qui ad Ascoli Piceno, segno di una collaborazione che parte da lontano e che ormai si consolida sempre più. Infatti, pur svolgendosi sempre a Grottammare, in tutte le edizioni del meeting, una delle tre giornate è sempre stata trascorsa nell’entroterra ascolano: ricordo un incontro al Palazzo dei Capitani di Ascoli, uno ad Arquata del Tronto, un altro ad Offida ed uno infine al carcere di Ascoli, un’esperienza davvero molto formativa.”
A seguire ha preso la parola il vescovo della Diocesi di Ascoli Piceno, Mons. Giampiero Palmieri, il quale ha illustrato in maniera sintetica il tema della giornata, “Ascoltare con l’orecchio del cuore”. Invitato da don Giampiero a pregare per la pace, infatti, Palmieri ha commentato il capitolo 14 di Geremia da cui è tratta l’espressione che dà il titolo al convegno ed in cui il profeta invita i fratelli ad essere ‘artigiani di pace’, sottolineando quanto quelle parole siano attuali.
Dopo aver portato il loro saluto il Sindaco di Ascoli Piceno, Marco Fioravanti, e l’Assessore Regionale al Bilancio, Guido Castelli, che da tanti anni sostengono il Meeting nazionale dei giornalisti, il convegno è entrato nel vivo con l’intervento di Mauro Ungaro, Presidente della Federazione Italiana Settimanali Cattolici: “La nostra federazione raccoglie quasi 200 testate in tutta Italia e l’elemento fondante e caratterizzante di ciascuna è la diocesianità: non ci può essere un giornale diocesano se non c’è un rapporto con la Chiesa locale, se non c’è un rapporto con il territorio. Il tema che il Santo Padre ci affida quest’anno sembra porci dinanzi ad un controsenso: in un mondo come il nostro, infatti, in cui ventiquattro ore al giorno siamo circondati da parole, dire di ascoltare sembra quasi un paradosso, perchè il verbo ascoltare presuppone un silenzio. L’ascolto a cui siamo chiamati, invece, è qualcosa di completamente diverso: è un atteggiamento che ha come presupposto prima di tutto una relazione personale, una relazione che deve essere caratterizzata da un silenzio rispettoso, ma carico di attese verso quello che l’altro ha da dirci e soprattutto deve essere caratterizzato dall’accettare che ci lasceremo cambiare da quello che l’altro ci dirà, dalla sua storia e dalle sue parole. Questo è quello che siamo chiamati a fare da comunicatori che mettono al centro del loro Ministero diaconale il loro servizio, perché – a mio parere – l’informazione cattolica è prima di tutto una diaconia alle Chiese. Il papa dunque ci ricorda che l’ascolto è il primo ed indispensabile ingrediente del dialogo e della buona comunicazione. E ci ricorda che tra l’ascoltatore e l’ascoltato ci deve essere una relazione, quella che in ambito giuridico chiameremo rapporto sinallagmatico, ovvero che indica che una prestazione non può esserci senza un’altra prestazione. Perché il dialogo non diventi un duologo, è necessario che l’io e il tu siano protesi l’uno verso l’altro.”
È stato poi il turno di Vincenzo Corrado, direttore nazionale dell’Ufficio Comunicazioni Sociali della Conferenza Episcopale Italiana il quale, dopo aver ringraziato tutti i giornalisti “per credere in una comunicazione integrale ed integrata”, si è soffermato sui tre grandi rischi in cui i giornalisti possono incorrere: “Oggi da una parte c’è una bulimia delle informazioni e dall’altra c’è un’anoressia di verifica ed attendibilità delle fonti. Il tutto in un mondo in continuo cambiamento.
Il papa ci ha esortato più volte ad essere fautori di una comunicazione attenta ai valori della trasparenza, dell’attendibilità, della sicurezza e della privacy. Oggi come non mai, quindi, credo sia utile smascherare tre grandi difetti di cui noi giornalisti a volte siamo fautori. Il primo è l’approssimazione, che ha a che fare con il confondere il fare con l’essere. A volte siamo occupati a leggere la notizia con la lente del fare notizia anziché quella dell’essere notizia ed andiamo incontro all’arbitrarietà e alla distorsione della notizia stessa. L’approssimazione, ovvero la mancanza di precisione, è uno dei rischi maggiori dell’informazione che inficia l’essenza stessa della comunicazione.
Il secondo aspetto riguarda la ridondanza settaria, intesa come rifiuto, intransigenza, scontro verso chi ha un’opinione diversa dalla mia. Credo che questo sia all’origine della violenza verbale, voluta, cercata, altre volte inventata. In questo senso le parole che noi usiamo per esprimerci diventano un’arma contro il nemico, identificato con chi la pensa in maniera diversa da me. Ascoltare con l’orecchio del cuore, allora, significa anche purificare il linguaggio, spogliarlo di quegli aggettivi che tradiscono il senso dei sostantivi, per guardare all’essenza di chi ho di fronte.
Un altro aspetto legato all’infodemia è la Babele mediatica. Con le nuove tecnologie sono aumentate tantissimo le possibilità di comunicare, ma non è cresciuta la consapevolezza del valore del comunicare. Nella sua radice etimologica comunicare significa ‘mettere il mondo in comune’ e questa definizione porta con sè una consapevolezza ben precisa, ovvero il fatto che la comunicazione esista se c’è un tu, si basa quindi sul riconoscimento che esiste un altro diverso da me. Tale riconoscimento, che di per sè costituisce una limitazione allo spazio individuale, diventa in un certo senso anche un atto trascendente, affinché la nostra comunicazione non sia autoreferenziale, bensì sia aperta e superi i rischi dell’omologazione, della semplificazione, del conformismo. Nella Babele mediatica si rischia di perdere il senso, o meglio il buon senso.”
Vincenzo Corrado ha poi ha poi elencato alcune strategie per combattere l’infodemia: “tra queste la più importante è ricreare le alleanze educative per contrastare ogni tipo di discriminazione e per poter instaurare quel dialogo intergenerazionale utile e necessario. Il digitale può rappresentare un territorio in cui si dona ai ragazzi la possibilità di fare, rendendoli importanti in un contesto che cerca invece di sminuire le loro capacità e, al contempo, si dona agli adulti la possibilità di apprendere dalla fattualità dei ragazzi. L’alleanza educativa potrebbe dunque generare un nuovo patto sociale che ridona all’informazione e alla comunicazione le sue caratteristiche fondamentali. In tal senso l’ascolto può aprire possibilità che in questo momento sono quanto mai necessarie. Non solo un ascolto per noi che oggi siamo qui, bensì un ascolto dilatato, che sappia raccogliere le istanze della società, che non trascuri l’integralità della comunicaione e dell’informazione. Nella Laudato si’ papa Francesco parla molto dell’integralità. Riferito alla comunicazione, questo significa che siamo chiamati a recuperare l’integralità dei cinque sensi, a muoverci verso un patto sociale che può essere una prima via d’uscita dall’infodemia.”
A seguire è intervenuto il Presidente dell’Ordine dei giornalisti delle Marche, Franco Elisei, che ha sottolineato come spesso purtroppo manchi la dignità della professione giornalistica: “Anche se la nostra professione è riconosciuta dal nostro pontefice e dal capo dello stato come uno strumento utile, nella realtà la credibilità è al minimo storico e va riconquistata per quello che in effetti l’ìinformazione merita. Lo stesso vale per l’autorevolezza e questo implica che non si ha potere contrattuale all’interno della società. Le responsabilità sono in parte nostre, ma non solo nostre. La realtà delle redazioni non rende sempre possibile consumare le scarpe: a volte il giornalista è costretto a ridursi al desktop, perché per sopravvivere è costretto a scrivere più articoli. Comunque, andando oltre questo discorso, un po’ ordinistico e un po’ sindacale, vorrei parlare di uno dei rischi in cui possiamo incappare noi giornalisti: la tentazione di raccontare le buone notizie anche quando tutto va male. A questa tentazione non dobbiamo cedere. Poi come raccontare che non tutto va bene è un altro discorso. Un conto è la cattiva notizia, un conto è la cattiva informazione. La cattiva notizia non si può non raccontare, perché sarebbe una censura, come in un regime; ma come raccontarla diventa un dovere dei professionisti dell’informazione. Il nostro compito non è fare i notai delle notizie, della realtà, bensì quello di interpretarla, spesso di anticiparla. Nella definizione che il legislatore dà al giornalista troviamo tre verbi: ‘raccoglie, elabora e diffonde’. Nella parola ‘elabora’ c’è il nostro compito: l’interpretazione. Credo che oggi la concorrenza non si basi più sul cosa raccontare, ma sul come, sulla qualità dell’informazione. Mi permetto di dire che ‘Ascoltare con l’orecchio del cuore’ potrebbe essere per un giornalista un po’ utopistico. Personalmente tramuto quell’espressione in un altro invito: ‘Ascoltare con sensibilità ed umanità’. Questo oggi per chi fa informazione è un elemento importante: l’ascolto, infatti, porta alla conoscenza che porta alla consapevolezza che , a sua volta, porta a prendere decisioni responsabili. Uno dei capisaldi della nostra informazione è la ricerca della verità: verità processuale, verità sostanziale dei fatti, verità assoluta. Per noi quello che importa è la ricerca della verità, che parte proprio dall’ascolto. La ricerca della verità si traduce anche in una trasparenza. Ecco allora che ci poniamo dei quesiti.
Chi ascoltiamo? Spesso ci troviamo a scegliere chi ascoltare. È importante trovare l’interlocutore giusto, quello competente; è importante ascoltare le fonti giuste.
Che cosa ascoltiamo? Anche le tesi che non condividiamo, perché anche quelle che ci portano alla verità putativa, quella presunta.
Come ascoltiamo? Il silenzio serve a dare spazio a chi sta parlando. Però questo silenzio non deve essere troppo prolungato. Il gironalista non deve annuire sempre: la comunicazione, infatti, non è una ricezione unilaterale di racconti, bensì un dialogo. Il silenzio è anche da parte di chi viene ascoltato. Il silenzio di fronte ad una domanda può significare tante risposte. Ricordiamoci sempre che l’ascolto è fatto non solo dall’ascolto delle parole, ma anche del linguaggio non verbale.
Perché ascoltiamo? In alcuni settori la nostra professione ci porta ad essere molto sotto ai riflettori e la capacità di ascoltare può mitigare un po’ del nostro narcisismo. Solo ascoltando si può conoscere e soprattutto capire. E nella nostra professione è fondamentale capire per far capire. Anche perché abbiamo di fronte non più un lettore o un ascoltatore, bensì un utente multimediale che si confronta con le nuove tecnologie e con le intelligenze artificiali che sono perfette nelle risposte, ma non hanno un’anima, non interpretano. Oggi a fare la differenza non è la quantità dell’ascolto, bensì la qualità. L’ascolto, infatti, ha bisogno di tempi differenti; oggi, invece abbiamo tempi rapidissimi. La concorrenza non si basa più tanto sulla qualità della notizia, quanto sulla rapidità con cui viene postata. Spesso vengono pubblicate informazioni che poi successivamente vengono modificate ed aggiornate, ma sono pochissimi gli utenti che vanno a leggere la seconda versione.
In conclusione vorrei dire che va bene ascoltare con la nostra sensibilità e la nostra umanità, ma non dobbiamo mai dimenticare l’approccio critico: quest’ultimo, infatti, non ci fa accontentare delle apparenze, non ci fa cadere negli stereopiti e nei pregiudizi.”
Il meeting è poi proseguito con l’intervento della giornalista italo – sirana Asmae Dachan, che, nata in Italia, è riuscita a ritornare in Siria da clandestina: “Seppur diversi, noi giornalisti assomigliamo ai medici. Questi ultimi per dare una diagnosi, si devono avvicinare, devono osservare ed ascoltare. Lo stesso vale per noi giornalisti, quando vogliamo trovare la notizia. Come hanno ben detto alcuni relatori che mi hanno preceduto, il nostro ruolo è quello di fare profezia: noi siamo chiamati a scavare a fondo per capire quello che sta succedendo intorno a noi. Ricordo con emozione le parole che Papa Francesco ha detto a noi giornalisti, quando ci ha ricevuto: ‘Voi scrivete la prima bozza della storia.’ Che grande responsabilità! A volte magari scriviamo di fretta, senza pensare che quello che scriviamo sia l’inizio di una storia e che influenzeremo le persone che verranno in contatto con quell’informazione. È con questa grande responsabilità che ognuno di noi cerca di fare il proprio mestiere. Io mi occupo di diritti umani, un giornalismo molto complicato in cui trovare la buona notizia è difficile, perché questi diritti spesso vengono violati, abusati, negati, soprattutto ai più deboli, alle donne. Nell’ultimo reportage, fatto al confine con la Siria, mi sono occupata di un giornalismo fatto di ascolto dei silenzi. Mi sono avvicinata a delle persone che solitamente non parlano: donne vittime di violenza di genere durante la guerra, vittime di detenzioni arbitrarie e di torture. A queste persone ci si avvicina in punta di piedi, ascoltando prima di tutto il non detto. Noi giornalisti, che viviamo nella parte giusta del mare, abbiamo l’obbligo morale di dare voce a quella parte del mondo che voce non ha. La mia preghiera quindi è quella di continuare ad ascoltare con l’orecchio del cuore quei paesi del mondo dove i diritti umani non esistono, dove continuano ad essere violati, quei paesi di cui non si parla più, come, ad esempio, l’Afghanistan. Io, che sono musulmana, sono orgogliosa di dire che collaboro anche con Avvenire che appartiene alla stampa cattolica che è molto sensibile a questi temiche: siate anche fieri di quello che fate.”
Alessia Caricato dell’Associazione Corallo si è soffermata sul ruolo delle emittenti cattoliche: “Le nostre emittenti non potranno mai essere riconducibili ad una fredda riduzione di schieramento, le radio cattoliche, quasi bastasse ad indentificarle la proprietà o qualche trasmissione religiosa. Le nostre emittenti sono e saranno emittenti cattoliche, se sono e saranno fino in fondo emittenti comunitarie, cioè strumenti poer dilatare missionariamente anche nell’etere quell’umanità nuova che è la compagnia della Chiesa. Le nostre emittenti non devono essere solo strumenti radiotelevisivi, devono diventare sempre più strumento di supporto all’evangelizzazione e quindi stimoli a processi di aggregazione sociale nei nostri paesi, nelle nostre citttà, nei nostri quartieri, devono assolvere a quella funzione che era stata assolta negli anni trenta dagli oratori o negli anni cinquanta dai locali parrocchiali o negli anni settanta dai centri culturali e sociali, ovvero la funzione di essere luogo e strumento di aggregazione. La pandemia e le tensioni che viviamo a livello globale hanno reso la gente ancora più sola con se stessa. Mai come oggi abbiamo bisogno di punti di riferimento, di luoghi da incontrare, di persone da guardare, di parole da ascoltare. Questo è possibile – come ha detto papa Francesco – solo percorrendo la strada della Verità, della Bontà e della Bellezza.”
Ultimo ad intervenire il Vescovo di Rieti e presidente della Commissione episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali, Mons. Domenico Pompili: “Solo l’ascolto gratuito e disinteressato ci consente di trovare la strada giusta per interpretare il tempo che si pone davanti a noi. In questo senso si inserisce l’esperienza di Radio Ascoli, che è un recettore di quello che avviene nella Diocesi.”
Al termine del convegno don Giampiero Cinelli ha spiegato tre aspetti alla base del significato del polo della comunicazione di Ascoli Piceno:
“Il fatto che il polo della comunicazione sia inserito all’interno di questa casa, che sarà anche la sede delle associazioni e dei centri pastorali ed associativi della Diocesi, indica il senso che la comunicazione ha, ovvero quello di essere un servizio della pastorale e della vita associativa della Diocesi.
Il secondo aspetto riguarda il fatto che in questo polo trova il posto tutto il mondo della comunicazione per stimolare un lavoro sinergico. Innanzitutto la società editrice prenderà il nome di A&P Media SRL e conterrà al suo interno la testata radiofonica Radio Ascoli, la testata cartacea quindicinale La Vita Picena, la web tv della Diocesi Radio Ascoli in tv e la testata digitale La vita Picena.it che è un’integrazione del cartaceo. Infine il Cinema Piceno, anche se non è gestito direttamente dalla società editrice, trova comunque posto in questa casa perché fa parte del mondo della comunicazione. Inoltre c’è anche l’Associazione di volontariato Intermedia che conta un centinaio di volontari che operano nel mondo della comunicazione. In questa casa infine trovano luogo anche l’Ufficio Stampa della Diocesi e chi si occupa della comunicazione sui social media diocesani.
Infine l’ultimo aspetto è che non vogliamo essere una realtà autoreferenziale, bensì un servizio al territorio della Diocesi, non solo della città, ma anche di quelle periferiche della vallata”.
In conclusione, le parole di gioia e soddisfazione di Roberto Gregori, presidente di A&P Media SRL, il quale, dopo aver ringraziato don Cinelli e il vescovo Palmieri, ha dichiarato: “Noi siamo orgogliosi di entrare a pieno titolo in questo cuore pulsante della comunità cristiana. Per noi è un riconoscimento importante, come azienda e come giornalisti. Noi abbiamo perseguito un sogno: non solo trasferirci ed operare all’interno di questa struttura, ma anche incrementare la nostra capacità comunicativa. Questo sogno si sta realizzando.”