Valerio Volpini visto da Raimondo Rossi
Valerio Volpini

8. POST FESTIVAL DIGITALE “VALERIO VOLPINI E LA RESISTENZA” 14 febbraaio 2014

in Festival Digitale Valerio Volpini e la Resistenza - Fanocittà

8. POST FESTIVAL DIGITALE “VALERIO VOLPINI E LA RESISTENZA”
Appendice Festival Digitale “Valerio Volpini e la Resistenza” – 14 febbraio 2014

 

Valerio Volpini visto da Raimondo Rossi

 Raimondo Rossi, “Valerio Volpini a Roma”, penna, 2001

 

QUELLA ESTATE DEL 1943

Il racconto di Volpini è nuovo nella narrazione delle proprie avventure nell’epoca della Resistenza, inedito nel suo proporsi per far capire l’evoluzione del mondo fascista, quando l’ha pubblicato su “Famiglia Cristiana” nel 1993, nei 50 anni del 25 luglio 1943, la caduta del fascismo. Dai giorni alla macchia nell’Appennino di Cantiano nel dicembre ’43 in poi Volpini ha interiorizzato l’esperienza partigiana, l’ha accolta, l’ha posta nel proprio patrimonio culturale e nel proprio sapere etico. Egli l’ha memorizzata con queste parole: “la resistenza è prima di tutto un fatto spirituale”, nel senso che apparteneva alla pienezza dell’esperienza umana e per lui anche al senso della coscienza religiosa perché informata alla carità di Cristo. Il suo è un itinerario mistico pensoso, un fare esperienza spirituale continua, un accumulo di consapevolezza, uno stato d’animo mai messo sotto accusa, e infine di politicità dell’esperienza religiosa. Forse in ragione di questo suo spirito di fiducia e di ribellione fiduciosa – per questa sua conquista che vale il senso dell’esistenza intera – ha raccontato quei giorni di una esperienza di giovani universitari, con opinioni non del tutto scontate, e di avvertimento di un momento storico cruciale: si entrava in una situazione nuova. Aveva solo diciannove anni, ma l’intelligenza sveglia della vita, che veniva dalla dimensione popolare e religiosa della sua sensibilità e della sua cultura. Lo dico con atteggiamento critico verso chi sostiene nel dibattito d’oggi la radice violenta dell’esperienza religiosa nella società moderna, il luogo della radice della violenza e dell’odio, che invece appartiene all’inganno del potere politico e finanziario. Il mondo di Volpini e dei suoi amici sosteneva il riconoscimento della dignità dell’uomo e del valore della vita. (Gastone Mosci)

 

 

Valerio Volpini, Raimondo Rossi acquerello 

LA MIA ESTATE DEL ’43

di Valerio Volpini

Eravamo stati invitati a Vidiciatico, paese dell’Appennino emiliano, ideale per le vacanze all’inizio del luglio per un campo del Corso allievi ufficiali e il relatiovo esame per i gradi di caporal maggiore. Il corso era gestito dagli ufficiali della milizia. Buoni diavoli quelli che conobbi, già rassegnati, per quel che accadeva, al peggio.

Il mio piccolo gruppo di studenti ad Urbino fu aggregato alle centinaia di colleghi di Bologna. Piantammo le tende in un bosco di castagni alla periferia del paese e nonostante le marce per i monti (costretti alla sauna dal pesante panno grigioverde, comprendente anche le cosiddette “fasce mollettiere” che facevano nascere accessi di inestinguibile prurito ai polpacci) poteva sembrare una vacanza. Comandava il campo un seniore, sempre elegantissimo e azzimato, che esibiva atteggiamenti raffinati con l’arrotare la erre e manovrare il monocolo.

La cosa che più mi stupì fu la libertà del discorrere di antifascismo, di ragionar d’opposizione e, persino, dileggiare con parole “trovate” e applicate alle canzonette in voga fra cui, per ovvie ragioni, “Vieni, c’è una strada nel bosco”. Si confessarono dopo pochi giorni le nostre specifiche collocazioni politiche: azionisti e socialisti i più. Quelli della Fuci (Federazione universitaria cattolica italiana), come me, erano piuttosto pochi. Poi molti non si pronunciavano ma erano i più feroci nella critica. Erano i comunisti che continuavano a rispettare le regole della clandestinità.

Un collega di Bologna si era costretto ad imitare continuamente il discorso del “bagnasciuga” che Mussolini aveva fatto il 24 giugno, una settimana prima. Aveva assicurato che se gli Alleati avessero tentato lo sbarco sulle coste italiane sarebbero rimasti in “posizione orizzontale” sulla battigia (che, sbagliando, chiamò “bagnasciuga”). Quel collega, poi, militando nella Resistenza, fu sorpreso con una radio trasmittente e per non cadere nelle mani delle SS si gettò dal V piano.

Il 10 luglio gli Alleati sbarcarono in Sicilia e nel nostre campo si sparse la voce che saremmo stati mandati alla difesa dell’isola, occupata per intero nel giro di una settimana.

Venimmo a conoscenza della caduta di Mussolini tornando da una esercitazione e le manifestazioni furono contenute a qualche canto antitedesco. Ci togliemmo le mostrine nere sul bavero della giacca a significare che non avevamo nulla da spartire. Un ufficiale, particolarmente depresso dall’avvenimento, punì un gruppo di allievi con “7 giorni di p.r. per aver manomesso l’uniforme”; p.r. significava “prigione di rigore” e la tenda-prigione fu fatta montare agli stessi puniti.

Il comandante ci riunì, salendo sulla solita radice di castagno che serviva da podio, per spiegarci che il fascismo, indipendentemente da Mussolini, non sarebbe mai finito perché rappresentava un’aristocrazia. Ci fece pena il tono sgomento dell’orazione, il che non tolse che alla chetichella ci squagliassimo lasciandolo solo con gli ufficiali e i pochi allievi che si erano dichiarati mussoliniani.

La punizione nella tenda-prigione fu revocata e qualche giorno dopo ci fecero avere le stellette da avvitare al posto dei fascetti. Con gli esami ognuno di noi fu promosso caporal maggiore del Regio Esercito.

“Famiglia Cristiana”, n. 33/1993

Valerio Volpini

 

 

Aldo Deli

Lo storico Aldo Deli

 

20 AGOSTO DEL ’44. IL DUOMO FU COPERTO DI MACERIE

di Aldo Deli

 

Ricorre il 54° anniversario del diroccamento a mine del campanile del Duomo di Fano.
Si badi bene che nel 1940 il vescovo Mons. Del Signore aveva fatto molti re costosi lavori nella cattedrale per celebrarne l’ottavo centenario della costruzione.

Dopo quattro anni dovette ricominciare tutto da capo, affrontando problemi enormi. “Non so – diceva – quanti anni ci vorranno; ma prima di morire voglio vedere il Duomo a posto! E anche questa volta la spuntò.

Ritornando a quel tragico 1944 le cose cominciarono a mettersi male per la Cattedrale nella notte fra il 15 e il 16 gennaio. Aerei alleati sganciarono alcune bombe che colpirono non gravemente il tetto. Andarono in frantumi tutte le nuovissime vetrate comprese le sei, molto belle, istoriate da Vittorio Menegoni. Crollarono i soffitti di alcuni locali annessi alla sacrestia. Danni più gravi subirono i palazzi posti poco lontani dal Duomo.

Le funzioni religiose ridotte al minimo furono dirottate verso la grande sacrestia ove i accedeva attraverso un cortile interno evitando la chiesa. Ed ecco il racconro un po’ sconnesso che delle giornate più tragiche ha registrato il Cancelliere Vescovile Mons. Agostino Narducci: “Venne l’ordine tassativo di abbandonare la città… Diventarono sempre più difficili le condizioni con l’avvicinarsi delle azioni guerresche e coll’inasprimento continuo delle esigenze delle truppe tedesche che imposero lavori, requisizioni di ogni specie e senza alcun riguardo ai bisogni della popolazione. Non fissiamo qui i soprusi e le ruberie subite dalla cittadinanza, ma cero le sofferenze furono gravissime e tali da lasciare il più brutto ricordo. Si può dire che i pericoli dei bombardamenti e delle armi passarono in seconda linea perché superati dalle malversazioni e dalle prepotenze.

Il giorno 20 agosto 1944, senza preavvisi di sorta, anzi dopo una affermazione della autorità tedesca qui di stanza mentre la minaccia di atterrare i campanili della città si supponeva rientrata, potentissime mine fatte esplodere dai guastatori tedeschi fecero saltare il poderoso torrione detto Torre di Belisario su cui era stata innalzata la cella campanaria e la relativa guglia del campanile del Duomo.

L’esplosivo provocò oltre il crollo del campanile, lo sfondamento del tetto e delle volte della Cattedrale su tutto il presbiterio e navata sinistra relativa; della prima campata della navata centrale e della sinistra aderente al presbiterio; il crollo del tetto e volta della Cappella di N. Signore del Sacro Cuore e l’abbattimento del muro perimetrale della Cappella del Sacramento fino al Battistero. Conseguenza di tale inqualificabile sacrilegio fu anche lo sfondamento e la rovina di parte dell’Episcopio attiguo; il crollo della Sala adibita ad Archivio storico della Cancelleria; la rovina quasi completa degli edifici civili fiancheggianti il Duomo per via Rainerio. Le macerie hanno ostruito la strada pubblica e riempito in proporzioni paurose la Cattedrale. In tali bruttissime condizioni, al rientrare la popolazione in Città, si dovette riprendere l’ufficiatura ridotta nell’ambiente della Sagrestia. Rovine meno ingenti, ma gravissime e deplorevolissime hanno subito in Città le Chiese di S. Paterniano, S. Domenico, S. Maria Nuova, il Santuario detto della Madonna di Piazza delle quali furono pure fatti saltare i relativi campanili. Tutte sono così rese impraticabili. Bisogna aggiungere il campanile di S. Arcangelo.

A testimoniare la grossolana bugia dei tedeschi, secondo cui i campanili potevano offrire punti di osservazione, vale ricordare che gli unici due campanili con grande vista panoramica, cioè quello di Monte Giove e quello del Beato Sante, non furono toccati. Senza contare che i tedeschi sapevano benissimo che gli Alleati per spiare le loro mosse avevano numerosa aviazione da ricognizione. Vollero fare uno sfregio al Vescovo, uno sfregio alla Città.

1998

Aldo Deli
(in “I merli di Fano“, a cura di Enzo Uguccioni, Fondazione Cassa di Risparmio di Fano, 2008, pp. 226-7)