Fanocittà | Festival Digitale Valerio Volpini e la Resistenza, 25-31 luglio 2013
SALVO NEL CAMPO DI GRANTURCO
Racconto di Valerio Volpini
Non li aspettavo: quel giorno avevo deciso di recarmi alla casetta bianca di Cesarin verso i Tre Ponti per vedermi anche con Aldo che stava, poco distante, da Tartàn. La mia base invece era alla Croce di Falcinetto. Tino, Libero e Nelio giunsero che già stavo gonfiando la bicicletta. A loro, ai tre moschettieri, andava sempre l’acqua per l’orto e m’irritava che facessero sempre tutto facile, sempre molto alla garibaldina. «Dobbiamo andare a prendere un fucile mitragliatore e alcune cassette di munizioni vicino a casa mia». Aveva parlato Libero che stava sfollato in una casa lungo il fiume all’altezza di Lucrezia. Era abitudine non chiederci dettagli sulle informazioni e che o perché. Io funzionavo da «comandante» e cercavo di fare le cose per bene e di passare sempre attraverso il rischio minore e di non mettere nei guai, ma a volte temevo che questo potesse sembrare timore o incertezza al loro giudizio. Ero il «comandante» del GAP ma anche il più ragazzo di tutti e questo, in realtà, mi metteva in uno stato di soggezione più che non mostrassi.
Ero il comandate
«Ma non ci si può andare stanotte? Se andiamo in cinque, con quel che c’è in giro. E poi dove sono queste armi?».
«No, bisogna andarci subito e tutti perché è roba che pesa”.
«Prima ci fermiamo a casa a mangiare la frittata. Mia moglie ha trovato le uova e abbiamo anche il vino».
Libero era di tutti il più euforico, Tino il più sicuro di sé, Nello il più lucido.
Di giorno preferivamo andare isolati e incontrarci solo nel momento necessario. Di soldati tedeschi ce n’erano molti perché uno dei guadi sul Metauro era proprio alla Chiusa. A cento metri dalla casa di Libero ci incrociò una pattuglia: ci guardarono appena; erano preceduti da una topolino mimetizzata con a bordo due in abiti civili: gli altri erano con le biciclette a mano o a piedi come noi.
«Ragazzi è meglio non fermarci in casa; mi sa tanto che a quelli abbiamo dato nell’occhio. Se andiamo in casa potremo far la fine del sorcio. E meglio che ci sparpagliamo c fra un’ora ci rivediamo, tanto le armi aspettano».
I fascisti in topolino
«Ma mia moglie prepara da mangiare e abbiamo fame; quelli ormai chissà dove sono andati».
Sulla porta feci un altro e poco convinto tentativo di dissuarderli. «Ma se te non hai fame vai sotto l’ombra a dormire». Non potevo imporre un comportamento che, dopotutto, era discutibile.
Non avevamo fatto in tempo a sedere che risentimmo la topolino. «Ve l’ho detto; disgraziati, ve l’avevo detto sì o no?».
«Usciamo e facciamo finta di niente».
Io, Nello e Loris uscimmo di fianco casa. Libero e Tino passarono, da dentro, nella cantina. Pensare di mettersi a sparare era assurdo; c’erano le famiglie dei contadini e non avremmo fatto altro che far ammazzare tutti. Dovevamo recitare a soggetto. Ma non avevamo fatto in tempo a fare qualche metro all’aperto che con la topolino arrivano gli altri. Ci puntarono contro le armi urlando che ci avvicinassimo con le mani alzate. Non eravamo più lontano di una quindicina di metri. Quando vidi che Loris e Nello obbedivano fingendo di essere stupiti capii che erano spacciati; Lorís aveva in tasca la «Berretta lunga» che gli prestava Otello e Nelio una bomba a mano.
Cominciarono a sparare
Io avevo la «Berretta corta». Non pensai di sparare, ma neppure di alzare le mani come loro. Non avrebbero potuto scamparla in ogni modo e tanto valeva che cercassi di scappare. lo ero discosto da Nello quattro-cinque metri e con un balzo presi l’angolo della casa. Cominciarono a sparare l’impazzata e a urlare alt alt. Mi abbassai dietro la capanna degli attrezzi e mi tolsi le scarpe. Sentii i proiettili delle raffiche conficcarsi per terra con quel rumore ovattato che ricorderò sempre come i soffi della morte. Lo scoppio delle raffiche e le grida dei tedeschi mi parevano d’un altro inondo. In istanti come questi credo che anche l’istinto si metta in moto come un computer per aiutare a scegliere la soluzione migliore. In me il terrore lo aveva messo in moto. Ormai avevo dato già morti gli altri e io non dovevo pensare che a salvarmi.
Oltre la capanna c’erano venti-venticinque metri di scoperto e poi cominciava un fittissimo filone di granturco alto (era la fine di luglio) e se fossi riuscito ad arrivarci potevo avere qualche speranza.
A zig-zag alla disperata
Ricominciai la corsa frenetica e dal computer subcoscienziale tornò la scheda di una lettura di ragazzo; i fumetti di Gino e Franco (i cinquantenni li ricordano) che mitragliati avevano pensato di correre a zig-zag; corsi a zig-zag alla disperata mentre avvertivo ormai solo i sibili delle raffiche a un metro o a un dito dalla testa. Davanti c’era il verde e la luce accecante della giornata estiva. Entrai galoppando nel granturco che mi fasciò e mi coperse con la buona sensazione del nascondimento alla morte che alla bestia braccata deve dare la propria tana. Ancora l’istinto nell’informe e totale invocazione alla Madonna di Loreto; era una preghiera senza parole, fatta con tutte le fibre della coscienza. Quei dannati continuavano a spararmi freneticamente. Sentivo cadere tagliate le piante di granturco intorno, ma ormai sparavano alla cieca perché io mi misi a correre fra solco e solco per non scoprire, col movimento delle piante, la mia posizione. Mi accucciai verso la fine e mi tolsi la camicia chiara che mi distingueva troppo e fui di nuovo allo scoperto.
Dietro una casa mi specchiai nei volti esterrefatti di alcune persone immobili (c’era, poi me lo raccontò, anche quell’Omiccioli capomastro che dirigeva la Cooperativa del Metauro) mentre io spremevo le mie ultime energie di mediocrissimo centometrista per trovare dove proseguire e allontanarmi ancora.
Smisi di correre
Smisi di correre quando non ne potevo proprio più. Ormai le raffiche erano cessate; non mi vedevano. Tornò la ragione e la logica, i sentimenti e una incredibile indescrivibile gioia fisica: «Sono vivo, sono vivo, non mi hanno ammazzato». Ma poi anche e subito il tormento per gli altri quattro che erano morti. E il rimorso: «io non ho fatto niente per aiutarli e non sono morto con loro».
Comunque dovevo muovermi; dovevo andare alla base e poi riferire subito a Cesarin. Lungo un filare incontrai un anziano contadino che «sbroccava» le viti. Gli chiesi se aveva sentito la sparatoria: «Ostia, se l’ho sentita». Era a torso nudo coi soli pantaloni; mi sfilai i miei e gli chiesi i suoi. Dovevo cambiare connotati così se quei maledetti mi avessero cercato potevo cavarmela. Quel contadino che non mi chiese nulla era Ruscìn, il padre di Manlio, fidanzato di una mia cugina dov’eravamo sfollati e dove avevo la base.
Prima di avvicinarmi a casa mandai una ragazza, che avevo incontrato, a vedere se c’erano tedeschi; dovevo essere stralunato ed eccitato perché cominciò a tremare e poi di lontano mi fece cenno di proseguire.
Il racconto alla madre
Raccontai a mia madre quel che era successo. Ci aveva visti andar via in cinque; «gli altri li hanno ammazzati e io non so ancora come ho fatto a uscir vivo». Dovevo comunque andarmene subito: dopo ogni azione era sempre meglio scomparire. Mi rivestii, tagliai di fuga la barba che m’ero fatto crescere da qualche settimana (oh l’inconsciente) senza bagnarmi la faccia e — potete credermi — senza fare il contropelo. Dovevo andarmene e cambiare pelle. Presi a braccetto mia sorella quattordicenne (che m’aveva aiutato più d’una volta, come staffetta e persino recapitando qualche sporta di bombe a mano) per arrivare da Cesarin. Se mi avessero incontrato i tedeschi sarei passato per un innamorato che non ha nessun pensiero della guerra. A Bellocchi rimandai indietro mia sorella.
Cesarin si scomponeva sempre poco e pareva che prendesse gusto ad essere freddo e ironico in tutte le occasioni. Credo che talvolta facesse il duro apposta. Non si scompose neppure al racconto che gli feci. Sottolineai il mio comportamento poiché ora sentivo il rimorso del superstite. «Sei stato bravissimo a farcela, no, sei stato solo fortunato».
Il lamento per i compagni
«Ma gli altri quattro sono morti e non mi dici che questo?».
«Mo, o testa de c…, vlevi morì anca te?» e mi piantò una di quelle risatine beffarde a mezza bocca che lui solo era capace di fare. «Adesso resti qui; fino a domani non ti devi muovere».
Ero solo con la stanchezza e il dolore per gli altri quattro; ero spossato dall’emozione e questo giocava sui nervi e mi pareva una colpa il non essere morto con loro. Le parole di Cesarin non mi avevano convinto. Loro avevano anche famiglia e figli. «Chissà che avranno pensato di me?». «Chissà come mi avranno giudicato?». Mi sentivo proprio a terra e non riuscii a chiudere occhio tutta la notte per quanto mi fossi buttato a riposare su un mucchio di sacchi vuoti assai comodi. Fu una delle mie notti più lunghe; sentivo il fischio del trenino sulla Metaurense e non pensavo che avrei dovuto far saltare di nuovo i binari. Fino ad ora non avevo mai visto la morte così vicino e non avevo mai sofferto per quella degli altri di cui mi sentivo corresponsabile. «Dovevo impormi, dovevo obbligarli a fare quello che dovevo comandare; ero stato un debole e li avevo condannati».
La sera dopo tornai alla base. C’era stato un seguito: poco dopo che m’ero squagliato con mia sorella i tedeschi, quei tedeschi, avevano circondato la casa e con grande eccitazione l’avevano perquisita da cima a fondo. Mia madre capì che erano proprio quelli di cui sapeva. Rovistando trovarono della roba della drogheria che Esposto (la drogheria di via Giordano Bruno) aveva sfollato. Presero alcune bottiglie di liquori e si diedero una calmata; così mia madre cercò di sapere «tirando a scartare». Le mostrarono la pistola e una bomba che ci avevano tolto: «Partigiani, partigiani molti, bosco» e le sembrò di capire che fossero scappati tutti e che non erano riusciti a fare caput a nessuno.
Cesarin racconta tutto
E dopo un paio di giorni (per rassicurarmi che su una bagatella del genere non se la sarebbe presa calda) Cesarin venne a dirmi che non era morto nessuno, che io ero un po’ troppo pessimista e che all’indomani dovevamo incontrarci con i due-tre capisquadra, con Aldo e Otello, per vedere di stabilire quel che si poteva ancora fare.
Era andata così: disarmati e messi al muro c’era stata una gran confusione; le donne e i bambini che piangevano, i soldati tedeschi sconcertati; alcuni erano intenti a spararmi altri a prendere posizione sulla strada. Quelli che dovevano sparare su Loris e Nello esitarono e loro, quando videro che il maresciallo che li comandava stava per strappare la pistola-machine ad un soldato per incaricarsi dell’esecuzione, fecero civetta e scattarono verso la macchia del fiume sul davanti della casa. Con loro erano stati più precisi nel tiro perché Nello trovò un buco nella camicia. Evidentemente anche i tedeschi avevano una gran paura di essere circondati; con tutte quelle piante intorno erano convinti che chissà quanti partigiani dovevano esserci. E si affrettarono a cambiare aria.
Il mistero che non sono riuscito a sciogliere è come avessero fatto ad arrivare alla mia base. Non era pensabile che fosse stato per caso; di abitazioni di contadini fra Lucrezia e Falcineto ce n’erano a centinaia e, d’altro canto, non avevo mai subito perquisizioni, nessuno s’era mai fatto vivo. Non ho mai capito se quei due in abiti civili entro la topolino fossero gli stessi che un paio di volte si erano spacciati per venditori ambulanti di filo e di sale e che invece di vendere facevano domande curiose sui partigiani e sui tedeschi, domande alle quali naturalmente mia madre e gli altri si erano guardati bene dal rispondere. Lei li conosceva di vista, ma non mi curai più, dopo la liberazione, di farmeli indicare.
Valerio Volpini
(“Due cronache” in “La terra innocente”, a cura di Fabio Ciceroni,
Ancona, il lavoro editoriale 2002, pp. 183-9, titolo e sottotitoli redazionali.)