Urbino, 2 poeti, Egidio Mengacci e Ercole Bellucci
Le Carte ‘poetiche’ di Egidio Mengacci” sono state pubblicate da Fermenti Editrice nel 2014, a cura di Gualtiero Se Santi.
A Urbino vengono ricordati due poeti, Egidio Mengacci (1925-2000) e Ercole Bellucci (1937-1997), che hanno segnato la cultura della seconda metà del Novecento, allievi di Carlo Bo, autori in dialogo con Paolo Volponi, operatori non docenti in università. Mengacci, poeta e narratore, gallerista (Galleria dell’Aquilone) e animatore delle iniziative culturali dirette da Carlo Bo; Bellucci, poeta e animatore editoriale (Cartolaria, Scritture & Figure, Stamperia Il Colle). Di Mengacci parlano giovedì 26 febbraio ore 16 nell’Aula Magna del Rettorato il rettore Vilberto Stocchi, Gualtiero De Santi, Maria Lenti, Gastone Mosci, Sergio Pretelli, Salvatore Ritrovato e Roberto Rossini. Su Ercole Bellucci venerdì 27 febbraio ore 16,30 al Circolo Acli-Centro Universitario per iniziativa dell’Unilit intervengono Sergio Pretelli, Gastone Mosci, Germana Duca Ruggeri, Raimondo Rossi, Nanni Leonardi, Fulvio Palma, Oliviero Gessaroli, Silvia Cuppini, Valter Gambelli e Giordano Perelli, con Mostre dei Ritratti di Raimondo Rossi e 15 foto di Fulvio Palma e Archivio Famiglia Bellucci.
Fulvio Palma, “Ercole Bellucci in piazza”, fotografia, Cat. “Urbino minore”,
Remel, 2013.
UNILIT – Università Libera Itinerante
Collegata all’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo
Circolo Acli – Centro Universitario
Conversazioni di Palazzo Petrangolini
Vivarte – www.urbinovivarte.com
Fano Città – www.fanocitta.it
*
Poeti d’Urbino 1
Ercole Bellucci
poesia ed editoria
*
Venerdì 27 febbraio 2015 ore 16,30 / 18,30
Piazza Rinascimento 7 – Urbino
*
Saluto di Sergio Pretelli, Presidente Unilit
Coordina Gastone Mosci
*
Germana Duca Ruggeri presenta alcune poesie
Il mio Ercole poeta
*
“Ercole Bellucci” in Vivarte 8 settembre 2014
articolo e mostra di tre disegni di Raimondo Rossi.
Lettura di Nanni Leonardi.
*
“Ercole Bellucci in piazza”
Fotografie di Fulvio Palma
in Urbino minore (Remel, 2013).
*
Oliviero Gessaroli e Gianfranco Ceccaroli
in dialogo con Ercole Bellucci nelle Edizioni Il Colle.
*
Ecco un libro d’artista immenso, “Cantonate di Urbino” di Paolo Volponi,
a cura di Ercole Bellucci, con tre incisioni di Renato Bruscaglia e grafica di Raimondo Rossi (Stibu-Il Colle, 1985). Ne parla Silvia Cuppini.
*
Giorgio Antinori, Valter Gambelli, Giordano Perelli,
Enrico Ricci, Raimondo Rossi, Luigi Stradella e Renato Volpini
collaboratori di un libro d’artista unico, a cura di Ercole Bellucci,
LIBRO CON ME ovvero Calendario del Libro perpetuo
(Stibu-Il Colle, 1988).
*
Poeti d’Urbino 2 e 3, Zeno Fortini Venerdì 13 marzo e Egidio Mengacci Mercoledì 8 aprile.
Collaborano Silvia Cuppini, Maria Lenti, Anna T. Ossani e Laura Paniccià.
IL MIO ERCOLE POETA
di Germana Duca Ruggeri
Credo di non essere la persona più adatta a parlare di Ercole Bellucci, poiché le nostre vite si sono appena sfiorate, realizzando soltanto un reciproco riconoscimento, una sorta di buon vicinato nella scrittura, verso la metà anni degli anni Novanta. Se sono qui, tuttavia, è perché desidero ricordarlo come amico nella poesia. Per l’occasione, grazie al prestito delle più lontane raccolte da parte di una cara amica, Maria Mancini, ho potuto rileggere quasi per intero la sua opera poetica. Così mi sono dovuta misurare subito con il suo pensiero dominante, un pervasivo riflesso di morte che sembra corrodere dall’interno qualsiasi forma di felicità. Tale ossessione, presente in molte pagine, appare stemperata dal talento di Ercole per la vita che si può cogliere quando egli sfrena l’intelletto rapido, libero, inquieto, dove ironia e autoironia, cultura e capacità progettuale fanno tutt’uno con l’impazienza e la larghezza del suo cuore. Ne deriva una visione del mondo anticonformista, polisemica, che mentre si avvita su immagini grevi e perturbanti, non manca di lasciarsi guidare da un flusso di coscienza il cui ritmo si libera attraverso un intenso lavoro sul lessico, come sulla ricerca di rime, assonanze, metafore, fra dettagli realistici e speciali effetti di luce.
Il mio Ercole poeta coincide con queste scaglie luminose. Le ho rintracciate nei testi dove egli cerca il suo essere ricordando infanzia e giovinezza, sullo sfondo di una vita cittadina semplice e operosa, fra le persone e gli oggetti, in interni domestici, nei bar, o in una immaginaria, conclusiva festa circense al Mercatale, l’antica rotonda bovaria. La mia scelta, in un certo senso, è complementare a quella realizzata dai redattori del quaderno VivArte a lui dedicato, dove si possono leggere due testi lunghi adatti a lumeggiare le vaste letture (dalla Bibbia a Leopardi, tanto per dire…) e gli aspetti più complessi della ricerca poetica e spirituale di Ercole. Già pronto sui vent’anni, con La ballata della falena (1959), a prefigurare destino e destinazione: un tema di portata universale che confluirà nelle opere successive, una per tutte Il ballo del Sanvito, in un crescendo parossistico, fino alla “Sarabanda” che chiude Oggettistica enimmistica (1995), la raccolta del congedo.
Ma torniamo all’origine: Carlo Bo nel 1960, presentando il poeta esordiente, già osservava la necessità, per entrare nel merito della sua forza espressiva, “di puntare tutto sul discorso lungo, di non ostacolare questo fiume ininterrotto che è la traduzione stessa della voce”.
Proprio con questo spirito, vorrei avviarmi ora alla lettura di Ercole Bellucci. La speranza è che sia agevole risalire la corrente della vita che egli ha saputo racchiudere con tanta acutezza nella libertà dei suoi poemetti, nel suo castello di carte.
Quando smetteva il lavoro
il nonno diceva finis
che a me sembrava una frangia stinta
di cenere ancora calda
sfinita dalla brace.
Insieme andavamo a spasso
all’osteria mi faceva sentire un sorso.
Se c’era l’arrotino davanti alla chiesa
stavamo a vedere le scintille
come sprizzavano dalla lame
delle forbici e del coltello
passate sulla ruota sotto la goccia.
Le lucciole azzurrine
scaturivano infiammate
sparivano in aria
prima di toccare per terra.
(Il ballo del Sanvito, 1985)
Con ragazza
Io scendo dal bancone
che tu ancora giri
sullo sgabello a vite.
E alla vita ti prendo
per reggerti il saltello
e appoggiarti sul mondo.
Se devi andare a gabinetto
dò io un’occhiata alla borsa
mentre ti aspetto.
(1986)
(Versiera, 1992)
Sbandamenti
da un capo all’altro della stanza.
Arretramenti
dovuti al viavai delle bottiglie e dei gatti.
Il ripetersi dei fatti-fenomeni
congeniti o contratti
il venir meno delle clausole e dei patti
l’uso disinvolto, senza il minimo indugio,
mirato il sotterfugio, pilotato e diretto,
curato il progetto nei dettagli
con spifferi e spiragli.
Per rime e tagli fasullo il poemetto
un trastullo di carte – picche! –
ramino elevate a castello
soffiate dal bambino
rase al suolo a tappeto sul tavolino.
(Oggettistica enimmistica, 1995)
RICORDO DI ZENO FORTINI
(Barchi 8 settembre 1939 – Urbino 29 novembre 2010)
NEL FUOCO DELLA CROCE
E’ Pasqua
e Tu risorgi
perché tutti ci vuoi risorti.
Non guardi la nostra indegnità,
non le volte in cui abbiamo voluto assaporare
il gusto acre e saporito del male,
come il maiale che s’avvolge nel fango sciolto
finché non ci sommerge e non ci copre.
Ma poi che la gola
sente mancare il fiato
e quasi affogata, prova,
a Te che sei la Vita,
ad innalzare un urlo squarciato,
ma che si è fatto fioco,
subito Tu lo raccogli.
E quindi ci curi, ci purifichi
come il chirurgo attento
ha operato il suo malato
e lui torna a sorridere gioioso
dopo che aveva perso la speranza.
Sei Tu che ci sostieni
quando misero si sente il cuore
e lungo i giorni
stanco si trascina e sconsolato.
Allora scocchi scintilla
che nello sfrigolio della cute
s’accende in fiamma intensa e larga
che brucia l’anima
nel legno della Croce
che sale, sale
e alta in mezzo al Cielo
stampa col fuoco la nostra Redenzione.
Zeno Fortini
La poesia? Un sospiro d’amore
Sono più di quarant’anni che Zeno Fortini si dedica alla poesia, che è la sua quotidiana segreta visitatrice. La poesia è il simbolo della sua vita nella scrittura e nella costante fervida immaginazione creativa. La poesia è, dice Montale, ma per Fortini la poesia si mostra come un volto che si rinnova nei segni d’un’icona, che rappresenta la vita: è un viso d’angelo femminile, uno scorcio antico, un orologio, un passante, il sindaco, una piazza, la città. Ecco come la definisce:
Ma io ti ho conosciuta, / t’ho allevata, / ed ora sei / la padrona dei miei sogni / e se il sogno è vita / tu sei la Signora / di ogni alito, di ogni gesto / anche se infimo e inconsulto.
La riflessione poetica di Fortini esprime un pensiero intenso e fondamentale, che riflette la sua esistenza come questo ininterrotto desiderio:
Fa che il mio cuore / torni a giocare monello / (…).
In questo contesto sta la misura del suo sentimento della vita e del suo sguardo naturale: il legame con l’infanzia come luminosità e come innocenza, quasi un inarrestabile “sospiro d’amore”.
Al Fortini che s’incontra ogni giorno nel suo spazio vitale dei portici corti di Urbino va legato l’osservatore della natura, il cultore del mandorlo che è posto nel cuore della sua visionarietà poetica. Il nostro amico ha fatto la scelta del primo fiore dell’anno nuovo, del simbolo della freschezza e della sorpresa. In questa zona espressiva sta la sua dimensione spirituale e il suo desiderio di colloquio: un ritrovarsi ogni giorno a misurare un itinerario vitale fatto di persone e di cose.
Con quale spirito? Fino a poco tempo fa, Zeno Fortini era un personaggio ritagliato nel nostro immaginario cittadino con un sorriso sospeso ed uno sguardo ironico pesante, era il don Chisciotte urbinate, un cavaliere in cerca di ragioni di disputa, libero giudice delle nostre debolezze. Ora, è più pensieroso, più inquieto, con maggiore vitalità poetica, racconta di Mirella come di un sogno: è il simbolo della generazione dei sessantenni urbinati, ne rappresenta il senso della vita. Fortini è un uomo che porta la testimonianza di una poesia che i suoi lettori capiscono ed amano. Una volta avrei detto che Zeno era una scommessa, un azzardo, ora direi che riesce a dar corpo ad un canto generale e a far emergere la sincerità profonda della vita.
(2002)
Gastone Mosci
Zeno, il poeta della piazza
Zeno Fortini parlava a voce alta, non per pretendere di essere ascoltato, ma perché così fanno i veri narratori popolari. Ed egli lo è stato certamente, come mostra la sua scrittura in prosa e in versi, lunga quasi mezzo secolo. Anche se il suo esordio avvenne sulla soglia dei trent’anni (Paura di dire, 1968), io ebbi modo di conoscerlo in età già matura quando entrambi ci trovammo a insegnare all’Istituto Magistrale di Urbino. Fu l’umana simpatia e “il comune destino di poeti”, come lui diceva, ad avviare un’amicizia rimasta viva nel tempo, con scambio di libri, opinioni, incoraggiamenti. La mia scoperta di Zeno autore di poesia risale alla lettura di Io, Neno e la Leonarda (1984, segnalata al Premio Viareggio). Poi vennero Fiore della notte (1989), introdotto come il precedente – da Floriano De Santi; Canto inutile (1999), con scritto di Gastone Mosci e breve saggio di Neuro Bonifazi; infine, Zeno, il sillogismo e la Mirella (2005), con note di Gastone Mosci, Maria Laura Ercolani e contributo pittorico di Vitaliano Angelini. Per l’occasione, sono tornata su queste raccolte a selezionare le poesie che più lo rappresentano, nel tentativo di afferrare qualcosa che vada oltre l’eco della sua voce e comunicarlo a chi ascolta.
Per entrare nel merito, vi è da osservare che Fortini, senza preoccuparsi di stile e sintassi, svolge in prevalenza il tema della memoria e dell’identità. Muovendo dal nativo paese di Barchi, sullo sfondo della guerra di Liberazione e dei primi anni Cinquanta, egli si fa narratore in versi liberi, della giovinezza e della vita restante, trascorsa per lo più nel giro delle mura e della piazza di Urbino. I suoi testi compatti, quasi mai scanditi in strofe, mettono in chiaro con un linguaggio in presa diretta, talvolta arricchito da inserti dialettali, la sua aspirazione all’amicizia, all’amore, al successo. Senza ignorare l’impegno civile, espresso da un lato con la denuncia di piccole grandi storture, dall’altro con il richiamo ai valori cristiani, suo costante riferimento.
Mi sembra di poter affermare che il contenuto biografico, l’uso dell’ironia, del paradosso e della satira sociale, lo spirito di verità e la fede sincera siano i fili conduttori della poetica di Zeno. In essa tutto rivive sotto i nostri occhi al presente. Tutto si mette in piazza: dalla semplicità delle origini, all’evanescenza degli amori; dagli incontri urbinati, ordinari e straordinari, all’urgenza della preghiera e dell’invocazione, fino a certe visioni mistiche. Come quella che conclude Il legno della Croce, testo inedito rinvenuto da Gastone Mosci, che vorrei proporvi al termine della lettura, concepita come omaggio al nostro caro “poeta della piazza”. Una dozzina di poesie scritte fra la fine degli anni Sessanta e il primo lustro del nuovo millennio. Testi esemplari, dove energia verbale e fiducia nel dire intavolano trame di corrispondenza fra parola e pittura. Trame piene di umanità e speranza.
13 marzo 2015
Germana Duca Ruggeri
Da Canto inutile, 1999
A Ercole Bellucci
E sento nel cuore
come uno struggimento
adesso che nella piazza,
che era la tua casa,
non vedo più la tua mano
stringere sotto il braccio
l’ultima novità editoriale.
Ora capisco
che mi fosti
subito amico
quando rozzo dal paese,
ma già innamorato
dell’azzurro spazioso,
io venni in questo luogo dei Principi del colore
e di quelli che al cesello
lavorano l’immagine.
Ma non dimentico
Le nostre pazze notti
al “Ragno d’oro”
con vino e gazzosa,
e l’ansia
di un cuore di ragazza
che battesse per te e per me
sulla rotonda,
dove fra le braccia strette
i giovani,
come la ricamatrice
al cerchio di legno,
trapuntavano
con le stelle più belle
il sogno della loro giovinezza.
Preferenze e preferiti
Michele è il barista da me preferito
perché non ti fa subire l’impatto del soldo.
Il suo è come un invito.
E poi ha di me una gran stima.
Sempre mi dice: “Ma lei è una cima!”
Ma oggi era di pessimo umore.
Forse ha avuto a che dire con la ragazza.
Lo si vedeva da come porgeva il bicchiere,
da come ti dava la tazza.
Poi mi ha detto tutt’arrabbiato:
“Lei professore sarà una gran cima,
però se beve per dimenticare
si ricordi di pagar prima.”
Da Zeno, il sillogismo e la Mirella, 2005
Il padre
Tu prima di giudice
sei padre che col cuore che trabocca di carità
cura le debolezze dei figli.
Quando il male ci attira
col suo fascino malato,
tu ci comprendi e ci risollevi.
E anche se ci allontaniamo da Te
per sciupare le bellezze
che generosamente ci doni,
attendi alla finestra il nostro ritorno
se solo parte da noi un sospiro d’amore,
per raccoglierci uniti alla tua mensa
e nutrirci col vitello più grasso.