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I racconti di Fabio Tombari e il Bianchello del Metauro

Fano, 50° della istituzione del Bianchello del Metauro, omaggio con Fabio Tombari e Valerio Volpini

in Enogastronomia
Storia del Bianchello del Metauro by Fanocittà

Vorrei iniziare la conversazione sul Bianchello del Metauro ricorrendo a due amici scrittori, due grandi testimoni fanesi del secolo scorso, Fabio Tombari (Fano 1899-1989) e Valerio Volpini (Fano 1923-2000), senza attraversare tutti i loro libri, che sono numerosi e specchio della grande e piccola editoria italiana. La ragione è semplice e immediata: il nostro blog, “Fano città”, testata giornalistica nata nel 2013, intende approfondire un dialogo d’informazione e di cultura sociale sulle tradizioni enogastronomiche del territorio con particolare riguardo al vino, alle aziende agricole, agli esperti e scrittori di un settore fortemente rappresentativo della nostra regione. Il nostro ruolo di cittadinanza e cook non ha altre pretese se non quelle di un’attenzione culturale e formativa, di studiare il vino e il suo ambito: il biancame, il trebbiano toscano, il “trebbiano dell’Adriatico”, per noi delle terre che vanno dal mare alle Alpi della Luna, principalmente il bianchello del Metauro. Il bianchello ha un primato: è il vino bianco simbolo del nostro territorio con un nome inconfondibile ed una armonia gioiosa d’accompagno, bianco luminoso, gradevole, fresco e beverino, una risorsa per stare cordialmente in compagnia. Ma anche un prodotto vinicolo sempre più riconosciuto ed apprezzato.

Sono ricorso a Tombari e a Volpini ma va detto che loro sono testimoni del biancame, del bianco tenero di campagna, non ancora registrato dalle numerose promozioni vinicole e imprese di sviluppo della Regione Marche. Il doc del bianchello del Metaruro quest’anno festeggia il Cinquantenario: la letteratura è ricca e di sicuri studi. Tombari e Volpini aiutano a capire alcuni aspetti vitali di umanità e di cortesia: la narrativa, la poesia, il giornalismo, il teatro, l’arte contribuiscono a dare rilevanza e valore al lavoro e all’operosità attiva dei campi.

Per Tombari non mi sono fermato alla filiera di “Cronache di Frusaglia” (La Lucerna, 1927), di “Tutta Frusaglia” (Vallecchi, 1929), “I ghiottoni” (Mondadori, 1939) e a tutte le fortunate edizioni mondadoriane. Ho scelto di dedicarmi a uno degli ultimi libri “La felicità”, undici prose (Edizione d’arte “Il colle”, 1991) con tre immagini prestigiose dell’artista Guido Vanni, una magnifica medaglia in bronzo, “Cantico delle creature”, per i novant’anni di Tombari in sovracoperta, poi ancora in bronzo “Al secolare albero di Rio Salso Fabio Tombari Pasqua 1989” in quarta di copertina, ed una intensa acquaforte del firmamento ducale allegata al volume.

Per Volpini, ho lasciato ai margini la sua esperienza di comandante partigiano combattente durante il passaggio del fronte e il suo primo volumetto d’arte, “Barbanera”, poesie con un’acquaforte di Arnaldo Battistoni e la prefazione di Carlo Bo (Scuola del Libro, 1949), la direzione del mensile di presenza culturale “Il Leopardi” (1974-75), la direzione de “L’Osservatore Romano” (1978-1984) e la collaborazione a “Famiglia Cristiana” (1985-1999). Mi sono invece soffermato sul suo libro marchigiano per eccellenza dei suoi cinquant’anni, “Fotoricordo e pagine marchigiane”, quindici prose, con disegni e incisioni di Arnoldo Ciarrocchi (L’Astrogallo, 1973). Volpini era l’espressione della cultura e della socialità politica del secondo dopoguerra, come Tombari il grande scrittore di strapaese e più tardi di stracittà degli anni venti-trenta, dopo la Grande Guerra.

Di Fabio Tombari ho preso da “La Felicità” (1991), un testo affascinante e curioso, che ne rivela lo spirito acuto e umoristico, “Il vino dell’astemio”, un cavalo di battaglia del conversatore, dello scrittore a tavola con gli amici, non direttamente collegato al bianchello del Matauro ma al vino in generale, bianco compreso. Ecco la citazione di apertura del saggio.

“Il vino del bevitore è schietto, non adacquato. E siccome il bevitore in genere è un intenditore, quel vino è certamente sincero. Ma il vino dell’astemio è ancor più genuino. Il bevitore è di bocca buona, purché il vino sia di suo gusto: amabile o asciutto, abboccato od asprigno, il bevitore lo manda giù anche se navigato o tagliato. L’astemio no: esige una purezza, una limpidezza maggiore. Così, per quanti aggettivi si possano appioppare ai vini, tutti più o meno spumanti, nessuno raggiunge l’elogio cui può arrivare l’astemio” (p. 31). Il racconto mantiene il ritmo dell’eleganza, provoca controversie, consenso, si fa lungo, piacevole, esuberante. E’ il vino che appartiene alla tradizione popolare e al salotto borghese. Il testo è una comica che alleghiamo perché è un bene comune a Fano, Pesaro e Urbino, legato al ricordo di scrittori famosi e che denota la simpatia che circondava il personaggio Tombari. Il vino, ed oggi anche il bianchello del Metauro, aiuta a riconoscersi e a stare insieme.

Alla teatralità divertita di Tombari vorrei legare la seriosità di Volpini: quando si discuteva di vino bisognava parlarne con il bicchiere pieno in mano: il gesto dell’affezionato del bianchello. Era cresciuto a Rosciano di Fano, in campi di biancame, campagna della piana del Metauro. Il vino era un alimento, il bianco c’era sempre. Il nonno gliene parlava: “Fotoricordo e pagine marchigiane” (1973) è il libro della civiltà contadina marchigiana che nel Novecento dialoga con la modernità. Non ci sono saggi specifici sul bianchello ma è tutto un raccontare per registrare la vita, la realtà sociale, non come narratore ma come osservatore e scrittore di “sapienzialità politica” con una spiccata visione etica. Volpini scrive di scrittori e di città, Luigi Bartolini e Urbino, Pasqualon e Sandro Gallucci, Fano e Senigallia, Tombari e Walter Piacesi: una riflessione vasta letteraria e artistica, un luogo d’umanità e di convivenza civile. Ho conosciuto il Volpini di questa epoca in un episodio legato al bianchello: “Oggi – era la fine di agosto a Fano – la colazione del contadino al lavoro: grappolo di bianchello e pane”, acini piccoli e paglierini e pane fresco del forno. Tutto qui.

Anche nei pescherecci in mare il pasto era frittura, pane e vino bianco, bianchello che sosteneva la “svagata cordialità dei pescatori”, diceva Volpini. Ma nella disputa tra bevitore e astemio, Tombari sosteneva che “l’astemio arriva al sublime”, non erano solo parole, ma un modo per conoscersi e per affrontare la vita. Tombari era affascinato dal meraviglioso, Volpini dalla realtà quotidiana.

Gastone Mosci

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