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Mal anconia – malinconia della città di Ancona

Mal’anconia – Rivivere la Città di Fabio M. Serpilli

in Lettere e Teatro

Mal’anconìa – rivivere la Città, di Fabio M. Serpilli

Mal’anconìa è il libro di Ancona di Fabio M. Serpilli,  di una lingua e una città al centro del Mediterraneo, una lettura neodialettale profonda del Mal d’Ancona,  di sentimenti e mappa di suoni antichi e nuovi della gente, di una “città a pezzi” che risorge (Ga.Mo.)

Se la nostra regione trova nella pluralità la sua ragion d’essere, Ancona è forse la città che più incarna quel suo crogiolo di genti, paesaggi e culture. Porto di mare tra i più importanti del Mediterraneo, quel gomito di terra che indica l’oriente è da secoli punto di riferimento per una tradizione adriatica che non smette di rinnovarsi nonostante le alterne vicende storiche che innervano gli anni.

Figlio dei suoi vicoli e profondo conoscitore della storia dorica è il poeta Fabio Maria Serpilli, che da decenni ormai si batte senza sosta per dare valore e dignità al dialetto nelle sue forme poetiche ed espressive, facendosi promotore di alcune delle più fortunate esperienze in questo campo: tra tutte il Festival del Dialetto di Varano, il Premio internazionale Poesia Onesta, organizzato in collaborazione con Associazione Versante di Falconara Marittima e la curatela (insieme al poeta e critico Jacopo Curi) dell’Antologia dei “Poeti neodialettali marchigiani” (2018).

Ultima sua fatica è la raccolta “Mal’anconìa”, già alla seconda edizione per i tipi di Puntoacapo (2021); un canzoniere che recupera, cesella e unisce il lavoro poetico di anni e lo fa con interventi critici d’eccezione come quello di Manuel Cohen e di Fabio Ciceroni.

Già dal titolo siamo immersi nel sentimento che nutre questi versi, un sentimento che si dà in un solo luogo, Ancona appunto, che è una città e una lingua al tempo stesso: viene in mente Pessoa tra i vicoli di Lisbona, un poeta che abita una lingua, il portoghese, attraverso i suoi eteronimi, che poi non sono che le anime che fendono e vivono la città lusitana. La “malanconia” di Serpilli è forse allora una piccola saudade adriatica.

La geografia del capoluogo è anche una mappa di suoni, da quelli sgraziati della gente del porto e dei “viguli” a quelli alti e liturgici udibili tra le panche di San Ciriaco; questa è la poesia dell’autore, la sua vocazione, unire l’alto e il basso, i “pureti” e il Santo, la bestemmia e il salmo. In questo gli è stato maestro Scataglini, tra i grandi dialettali del ’900 ancora poco riconosciuto; ma se il poeta di “Tuto è corpo d’amore” trasformava il dialetto in un “neovolgare”, abbeverando la lingua materna nelle fresche e dolci acque dei poeti medievali, Serpilli si inscrive a pieno titolo il quel neodialetto che nel secondo dopoguerra si stacca dalla tradizione folcloristica per abbracciare i temi lirici ed esistenziali della poesia colta, fino a quel momento ad appannaggio quasi esclusivo dei componimenti in lingua italiana.

È così che i suoi versi – la rima, l’onomatopea, l’acuto neologismo – non sono più mero gioco, divertissement, ma mezzo linguistico capace di dare del tu a Dio nella sua continua ricerca, “nun è che so’ io che t’ho creato?”, un territorio immateriale dove prendere coscienza del vuoto che rimane tra il passato irraggiungibile e la finitudine dell’esistenza, “Puesia è ‘l vòto che armane / ché le parole nun basta mai”.

La “città a pezzi” è metafora del corpo che cammina verso la morte (si legga ‘Crobazìa o O Morte bèla), ma per il poeta c’è la parola, l’ironia che ricuce il tempo e lo salva, ecco l’agonia e la malìa del titolo, e poi Ancona stessa, la sua memoria collettiva, si fa tutt’una con il poeta: come quando vengono ricordati i bombardamenti del 1° novembre del ‘43, “Cità / presa d’infarto”, al rifugio di Santa Palazia, dove davanti all’ineludibilità del Fato e della Storia, Serpilli fa suo lo smarrimento e il terrore dei 700 che cercando salvezza trovarono la morte,”Giorno de Tuti Santi / tuti morti”.

In questa terra desolata, come per Eliot, “beleza e disperazió / nun védene el fondo”, il solo conforto è nella fede nella parola, nella poesia che sublima il tempo verticale o lo trasforma in circolare, “ché la fine è l’inprincìpio” dice il santo: non c’è più morte nei versi, nella bellezza dell’essere qui e ora e persino Ancona, in un bagliore di un secondo o per sempre, può apparire ai nostri occhi un’antica Bisanzio coperta d’oro e umanità.

Michele Bonatti

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