La chiesa del grembiule in ricordo di don Tonino Bello a 20 anni dalla morte

in Costume

“la chiesa del grembiule” in ricordo di don Tonino Bello a 20 anni dalla morte

Relazione di Mons. Luigi Bettazzi Vescovo emerito di Ivrea

Guido Cavalletti

Quella di stasera è una festa, una vera festa dell’accoglienza di Mons. Luigi Bettazzi che ci onora della sua presenza: non sarà un memoriale su don Tonino Bello, ma un ricordo personale della sua persona e del suo operare da parte di un amico. La parola ora al nostro parroco, don Ettore.

 

Don Ettore Colombo

Ringrazio vivamente sua eccellenza Mons. Bettazzi per essere tra noi questa sera per parlarci di don Tonino Bello, oltre che di altri temi che entreranno in gioco, ad esempio la figura del nuovo Papa, e questo proprio da parte di un personaggio che, a suo tempo, ha partecipato in prima persona al Concilio Vaticano II°. Partecipando alla cena con mons. Bettazzi devo dire che per la ricchezza della sua conversazione e per le cose concrete che ci ha comunicato, merita di essere ascoltato.

 

Gianni Cervellera

Io sono pugliese, della stessa terra di don Tonino Bello, ma sono anche molto legato a Molfetta, dove si trova il seminario regionale che ha prodotto molti sacerdoti.
Mons. Bettazzi penso sia conosciuto da molti, è vescovo emerito di Ivrea, è stato Presidente di Pax Christi e a lui, in questo incarico, è succeduto don Tonino Bello.
La chiesa è bellissima e, a volte, è particolarmente bella e alcuni suoi figli vengono a dirci e a sottolineare questa particolarità. Questa sera conosceremo passi della vita di don Tonino, oltre che l’esperienza di Mons. Bettazzi durante il concilio e il suo pensiero sul momento attuale della chiesa.

 

Mons. Luigi Bettazzi

Buonasera a tutti. Ho conosciuto don Tonino Bello quando ero insegnante a Bologna al Seminario Regionale e lui era stato mandato dal suo vescovo a Bologna dove si trovava il seminario dell’ONARMO (opera nazionale assistenza religiosa e morale agli operai) per preparare i cappellani di fabbrica. Mandavano i migliori dal Sud al Nord, lui risiedeva all’ONARMO, ma veniva a scuola presso il Seminario Regionale; non sono mai stato suo insegnante perché io insegnavo al Liceo e lui frequentava la Teologia. Sentivo però i suoi professori parlare di Tonino Bello, di quel ragazzo del Sud “che fa certe obiezioni…”. Nel 1981, un prete di Tricase, giù nel Salento, mi invita per una “tre giorni” sulla scuola: andiamo a mangiare presso le Suore di Ivrea ed ecco, il parroco di quel luogo era Tonino Bello. Fu lì che incominciavamo a rievocare Bologna e il card. Lercaro che era l’Arcivescovo ai tempi del Concilio e fu sempre lì che imparai a conoscere il suo modo di vivere la pastorale dal modo in cui parlava dei suoi preti, dei suoi poveri.
Nel 1968 ero stato chiamato dalla Conferenza Episcopale Italiana (C.E.I.), lì mi chiesero se sapessi cosa fosse Pax Christi, io risposi che no, non lo sapevo. E loro a dire che era un movimento di uomini per la pace, che avevano bisogno di un presidente e loro avevano pensato a me perché – a loro parere – ero il più adatto a questo incarico. Movimento per la pace, in pieno 1968. Quando nel ’78 fui nominato anche presidente internazionale, pensai che di pazzi ce ne fossero in giro almeno due: contavamo su Mons. Ablondi, Vescovo di Livorno e, insieme, scrivemmo ad una trentina di vescovi italiani (almeno quelli che sembravano più trattabili) chiedendo loro un parere su Pax Christi, oltre a qualche nome. Mons. Benigno Papa, che è stato arcivescovo di Taranto, ma al momento era vescovo di Oppido Mamertina (Calabria), nella diocesi che era stata offerta a Tonino Bello. Tonino Bello aveva rifiutato per non separarsi dalla madre, per la quale aveva una venerazione, anche perché lei era rimasta vedova con tre figli da crescere; inoltre la madre, terziaria francescana, era colei che gli aveva insegnato a stare con i poveri. Quando però gli offrirono Molfetta (la madre nel frattempo era morta) non potè più dire di no e Mons. Papa, dopo le lettere di cui parlavo prima, ci suggerì Tonino Bello, ma anche di fare in fretta perché era molto richiesto. Noi presentammo tre nomi di vescovi, come di regola: il Card. Ballestrero, presidente della CEI, uomo molto furbo, pensava che fosse cosa buona presentare all’ultimo momento l’uomo scelto, giusto quando i vescovi – borsa in mano – erano pronti per andarsene; cioè la nomina del Presidente di Pax Christi, presentato in fretta e furia quindi eletto, dando una spinta notevole al movimento.

 

Qui mi voglio collegare al concilio: quando era iniziato il concilio, il vescovo di Tonino Bello se lo era preso con sé a Roma perché lo aiutasse durante i lavori di preparazione delle varie commissioni, poi tornò a casa perché le cose si dilungavano, però nel frattempo aveva respirato l’aria del concilio, con le sue quattro costituzioni fondamentali che rispondono su la chiesa “Lumen gentium”, sulla divina rivelazione “Dei verbum”, sulla liturgia “Sacrosantum concilium”, sulla chiesa nel mondo contemporaneo cioè la “Gaudium et spes”.
Tonino Bello era diventato il Vescovo della Gaudium et spes, cioè: “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri e, soprattutto, di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”. Perché non è la chiesa di qua e il mondo di là, la chiesa è l’umanità tutta. E Tonino Bello sosteneva che le gioie e le speranze degli uomini, dei papà e delle mamme, dei giovani, degli operai, dei sofferenti, degli emarginati, sono le stesse della chiesa e dei cristiani, perché i cristiani devono vivere la vita della gente ma in modo di aiutarla ad aprirsi agli altri.

 

Questa era la sua grande ispirazione e diceva di avere imparato dalla mamma a guardare soprattutto ai poveri, a vedere nel loro volto il volto di Gesù Cristo e questo l’aveva messo in pratica nella sua diocesi. Quando delle famiglie erano sfrattate, le prendeva in vescovado e lì si vedevano bambini a frotte. Tonino Bello era anche famoso per la storia del titolo di Basilica Minore, conferito al santuario locale della Madonna. La denominazione di Basilica Maggiore si riferisce alle quattro basiliche di Roma, tutte le altre sono basiliche Minori: a un signore che chiedeva perché mai la loro basilica fosse minore, Tonino Bello rispose che era considerata minore perché la basilica maggiore è l’essere umano, amato da Dio. E questo era il suo senso del vivere, inteso come servizio soprattutto ai poveri, come recita la costituzione “Gaudium et spes e quella sulla Parola di Dio, la Bibbia, cosa che, fino a cinquant’anni fa, la Bibbia non si poteva leggere ed era opinione comune che chi lo facesse era un protestante.
Ricordo che a Manfredonia c’era un prete che aveva studiato a Bologna con il card. Lercaro, costui aveva comperato la Bibbia, e la madre quando se n’è accorta, andò subito a fare la spia al parroco che sentenziò che la Bibbia non si doveva leggere. Una volta non la si usava, il testo sacro però era riservato all’autorità che lo studiava, lo interpretava, lo serviva sotto forma di catechismo e su quello noi ci formavamo. Invece la Bibbia è la Parola con cui Dio si rivolge agli uomini e Mons. Tonino Bello spiegava il Mistero della Trinità, cioè Padre, Figlio e Spirito Santo in questo modo: se prendiamo 1+1+1 fa tre, ma se noi diciamo 1x1x1 fa uno. Rimane sempre un mistero, però è vero che lo Spirito di Dio che noi siamo: non ognuno per sé, ma siamo l’uno per l’altro.

 

Ora, qualche minuto di relax. Succede che muore un signore e quando incontra san Pietro chiede la grande cortesia di poter incontrare Adamo, cortesia che gli viene negata perché impossibile a farsi, ma alle reiterate insistenze dell’uomo, san Pietro cede e concede tre minuti, non uno di più e chiama Adamo. Il morto recente e richiedente, inizia a interrogarlo sul suo peccato: che tipo di peccato era? Qualcuno ritiene essere stato un peccato di gola, altri un peccato di orgoglio, altri ancora un peccato sessuale. Mi dica, signor Adamo, che peccato è stato? E Adamo “è stato un peccato originale!”.
Noi lo chiamiamo originale perché è all’inizio dell’uomo, io invece dico che è originale perché ha origine dentro: “io sono così importante che faccio di testa mia, gli altri facciano quello che vogliono”. Lo Spirito di Dio, lo Spirito Santo è lo spirito dell’amore, dell’unione, lo spirito di Adamo è lo spirito di chiusura, ma Dio vuole che arriviamo allo Spirito dell’amore. Noi per imporre le nostre idee facciamo le guerre, Dio invece ha preso un popolo e ha detto: “Non fare Dio a tua immagine e somiglianza perché sei tu ad essere a somiglianza di Dio. Guarda cosa ha fatto per te, ti ha liberato dal Faraone, ti ha fatto attraversare il Mar Rosso, nel deserto ti ha dato da bere e da mangiare fino a condurti alla Terra promessa. L’amore di Dio è la premura che ha per te e se Dio è amore e premura tu, a tua volta, devi essere amore e premura verso gli altri che sono nel bisogno e l’esempio sono l’orfano, la vedova e lo straniero”.
Questo è il modo con cui Dio cerca di persuadere ognuno di noi, la chiesa a porre l’attenzione e la cura su questa umanità offrendo il meglio di sé; anche i Maya e gli Atzechi, in quella che nell’antichità era l’America Latina attuale, offrivano al loro Dio le persone migliori del loro popolo. Anche la storia dice che è Dio che insegna all’umanità ad essere amore… e arriva Gesù Cristo che dice che Dio è amore e a quello che si dice sull’amare i propri fratelli aggiunge di amare anche i propri nemici.

 

Tornando a Tonino Bello: egli scriveva lettere a, ad Abramo, a Sara, a Esaù, a Giacobbe, a Giuseppe, a Mosè, ad Aronne, a Myiam, ad una ragazza senza nome, a Giosuè, a Samuele, a Saul, a Davide, a Rizpa, a Salomone (Ad Abramo e alla sua discendenza – Editrice La Meridiana) perché attraverso loro il Signore potesse insegnare anche a noi; per lui la Parola del Signore era sentita come una cosa viva, piena di forza perché veniva dal suo spirito. Nella cappella del vescovado di Molfetta c’era un tavolino ed è lì che Tonino Bello pensava, rifletteva e meditava davanti a Gesù e da lì poi suggeriva cose forti. Pensate, per esempio, a quella frase che recita “o Dio o mammona”. Mammona, la ricchezza che noi spesso mettiamo al di sopra di tutto, anche delle fede. L’amore di don Tonino per i poveri era immedesimazione in Gesù Cristo, lui amava molto il Vangelo di Giovanni perché, a differenza degli altri evangelisti che scrivendo dell’ultima cena, affermano che “Gesù, alzatosi, prese il pane il vino, li benedì e li porse loro dicendo questo è il mio corpo, questo è il mio sangue, fate questo in memoria di me”. San Giovanni scrive che, “amato i suoi discepoli, li amò sino alla fine”; quello che gli altri evangelisti non hanno scritto, è che “Gesù prese un grembiule, lavò i piedi agli apostoli e disse loro fate questo in memoria di me”.
Don Tonino diceva che “quando da loro veniva consacrato un prete nuovo, le suore del paese gli donavano una cotta e una stola ricamata in oro ma nessuno regalava un grembiule. Eppure è questo l’unico paramento sacerdotale ricordato nel Vangelo. Le nostre chiese purtroppo celebrano liturgie splendide, anche vere, ma quando si tratta di rimboccarsi le maniche, c’è sempre un asciugatoio che manca, una brocca che è vuota d’acqua, un catino che non si trova… “quando, riprese le vesti, secondo il Vangelo, Gesù non depose l’asciugatoio: se lo tenne. Gesù è diacono permanente, è servo a tempo pieno”. Questo perché si intendesse la chiesa come servizio, che lui definiva “la chiesa del grembiule” capace di arrivare nel servizio ai più poveri. (la Chiesa del grembiule – Editrice San Paolo). Perché Papa Francesco piace tanto? Per questo motivo. Una ragazza incontrata mi diceva che era tanto tempo che non andava a messa, ma dopo aver sentito il nuovo papa ha ricominciato a frequentarla forse perché – come molti altri – nella vita da vescovo di Papa Francesco ha intravisto la chiesa del grembiule, cioè del servizio.

 

Poi c’è Pax Christi, dove è arrivato a far maturare l’idea di quello che conta è la non violenza attiva nella quale bisogna impegnarsi. Nel dicembre del ’92 l’associazione “Beati i costruttori di pace”, voleva andare a Sarajevo che allora era in mano alle truppe serbe. In Sarajevo non si entrava, punto e basta. Il 10 dicembre, anniversario della Carta per i diritti umani dell’ONU, si decide di andare a Sarajevo, don Tonino sapeva già di avere un tumore allo stomaco e io, andandolo a trovare, lo sconsigliai dal partecipare; quando la sera stavamo per imbarcarci sulla nave, c’era anche lui, accompagnato dal fratello, fu un viaggio da tragedia, con un mare forza otto, la nave in avaria per un guasto, tanto che a monte delle previsioni di un viaggio di otto ore, ne impiegammo ventidue. Quando arrivammo a Spalato, c’erano ad attenderci il Vicario Generale della città e il Console Italiano che ci avvisarono che da lì a Sarajevo era tutto bloccato, per cui stemmo due giorni fermi. Dopodiché riuscimmo a parlare con le autorità serbe che ci permisero di entrare in Sarajevo come ostaggi. C’era il coprifuoco, ma in qualche modo, il giorno successivo don Tonino riuscì ad andare alla cattedrale cattolica, io a quella ortodossa, un altro gruppo alla sinagoga; dopodiché ci trovammo tutti in un cinema dove parlarono in diversi, ma il discorso era il suo.
Disse: “noi siamo qui per tre motivi, il primo dei quali per dire che non siete abbandonati, c’è qualcuno che pensa a voi, il secondo motivo è per richiamare la responsabilità dell’Italia e dell’Europa nel lasciare una situazione come questa e, infine, per dire che l’unica strada per la giustizia e per la pace è la non violenza attiva”. Direi che questa è stata la grande ispirazione che lui ha dato in una città del tutto sprovvista di copertura militare per quanto riguardava la nostra presenza, inoltre c’è da dire che – almeno durante la nostra presenza – anche i cecchini hanno taciuto.

 

E arrivò il lunedì di carnevale del ’93: io lasciai Ivrea per andarlo a trovare e portavo con me la reliquia di un santo vescovo irlandese, morto a Ivrea dopo un lungo andirivieni tra il suo Paese e Ivrea. Gli portai dunque la reliquia dicendogli che avremmo fatto la quaresima pregando questo santo perché, essendo poco conosciuto e dunque disoccupato, non c’è nessuno che lo preghi. Quando tornai da lui il lunedì di Pasqua era crollato, aveva tenuto il discorso del Giovedì Santo dalla carrozzella e da Vienna, dove mi trovavo qualche giorno dopo, partii direttamente per Molfetta, dopo una telefonata di Mons. Nogaro che mi avvisava del precipitare della situazione. Dissi a don Tonino: “Senti, don Tonino, si possono avverare tutti i miracoli del mondo, però posso dirti che il Padre misericordioso sia uscito di casa incontro al figliol prodigo”.
Il Vescovo di Caserta, Mons. Nogaro, qualche giorno prima gli aveva portato una statua stilizzata africana del Padre che sorregge il figliol prodigo e l’aveva posta accanto a don Tonino su una poltrona. Io celebrai la messa lì e lui ha tenuto il suo ultimo discorso sul padre misericordioso che esce di casa per venire incontro a noi che siamo figlioli prodighi. Il sabato e la domenica successivi rientrai a Ivrea per la celebrazione della cresima e il lunedì ritornai – viaggiando di notte – a Molfetta. Trovammo don Tonino lucido, si era messo una fascia portata da Giuliana Martirani dall’Equador formata da tante strisce che riportano alle diverse tribù che formano un popolo solo. Dunque don Tonino la indossò per l’ultima messa e sul tavolino dove avevano posto l’ostia e il calice c’era un tessuto fatto dalle donne serbe e croate di Sarajevo; abbiamo celebrato e pregato insieme poi, anziché dire le litanie lauretane della Madonna, io recitavo i capitoli di un libretto che lui aveva scritto citando la Madonna:

 

Maria, donna feriale, e lui “prega per me”,
Maria, donna senza retorica
Maria, donna dell’attesa
Maria, donna innamorata
Maria, donna gestante
Maria, donna accogliente
Maria, donna del primo passo
Maria, donna missionaria
Maria, donna di parte
Maria, donna del primo sguardo
Maria, donna del pane
Maria, donna di frontiera
Maria, donna coraggiosa
Maria, donna in cammino
Maria, donna del riposo
Maria, donna del vino nuovo
Maria, donna del silenzio
Maria, donna obbediente
Maria, donna di servizio
Maria, donna vera
Maria, donna del popolo
Maria, donna che conosce la danza
Maria, donna del sabato santo
Maria, donna del terzo giorno
Maria, donna conviviale
Maria, donna del piano superiore
Maria, donna bellissima
Maria, donna elegante
Maria, donna dei nostri giorni
Maria, donna dell’ultima ora
Santa Maria, compagna di viaggio. (Maria donna dei nostri giorni – Editrice san Paolo)

 

Questa è stata la sua ultima preghiera. Pativa molto, era stanco di vivere, non ne poteva più di soffrire, ma diceva di offrire le sue sofferenze per la sua chiesa di Molfetta e per il popolo della pace. E quando è morto abbiamo recitato il Magnificat.

 

Dopo due giorni c’è stato il funerale sul molo, c’erano sessantamila persone a salutarlo: lui aveva partecipato alla marcia di Capodanno, che avrebbe dovuto essere fatta a Bari, ma poi si era tenuta a Molfetta: è stato il suo addio e avrebbe dovuto finire proprio sul molo, come augurio e saluto all’Albania, questo non era stato possibile con la marcia, lo è stato il giorno del suo funerale. Ha voluto essere sepolto per terra, accanto alla madre, il suo anello da vescovo era la fede della mamma con incisa una croce: sulla sua tomba i fratelli hanno creato una sorta di piccolo anfiteatro antistante la lapide e, in quel luogo, c’è sempre gente a pregare e meditare. Quest’anno la marcia si è tenuta a Lecce e, passando per Alessano, ci siamo fermati a salutarlo.

 

Gianni Cervellera

In riferimento al ricordo delle “litanie” scritte da don Tonino, qui a Cernusco la locale Libreria del Naviglio è una delle librerie più fornite dei libri di don Tonino Bello; molti sono convinti che questi testi siano dei pezzi di letteratura e la sua poesia è stata più vera perché è stata vissuta e non soltanto bellezza di parole.

 

Luigi Bettazzi

“voglio ringraziarti, Signore, per il dono della vita.
Ho letto da qualche parte che gli uomini sono angeli
con un’ala soltanto
perché possono volare solo rimanendo abbracciati.
A volte, nei momenti di confidenza, oso pensare, Signore,
che anche tu abbia un’ala soltanto. L’ala la tieni
nascosta:
forse per farmi capire che tu non vuoi volare senza di me.
Per questo mi hai dato la vita:
perché io fossi tuo compagno di volo.
Insegnami allora a librarmi con te.
Perché vivere
Non è “trascinare la vita”,
non è “strappare la vita”,
non è “rosicchiare la vita”.
Vivere è abbandonarsi, come un gabbiano,
all’ebbrezza del vento.
Vivere è assaporare l’avventura della libertà.
Vivere è stendere l’ala, l’unica ala,
con la fiducia di chi sa di avere nel volo
un partner grande come te!
Ti chiedo perdono di ogni peccato contro la vita.
Anzitutto, per le vite uccise prima ancora che nascessero.
Sono ali spezzate.
Sono voli che avevi progettato di fare
E ti sono stati impediti.
Viaggi annullati per sempre.
Sogni troncati sull’alba.
Ma ti chiedo perdono, Signore,
anche per tutte le ali che non ho aiutato a distendersi.
Per i voli che non ho saputo incoraggiare.
Per l’indifferenza
Con cui ho lasciato razzolare nel cortile,
con l’ala penzolante,
il fratello infelice che avevi destinato a navigare nel cielo.
E tu l’hai atteso invano,
per crociere che non si faranno più”. (Parole d’amore – Editrice la Meridiana )

Adesso volevo chiedere a Mons. Bettazzi quale è stata la sua esperienza partecipata e vissuta al Concilio Vaticano II°, respirandone lo spirito.

 

Mons. Luigi Bettazzi

Io arrivai al concilio alla seconda sessione: sono stato consacrato vescovo il 4 ottobre 1963, (il 4 ottobre, in tutto il mondo è S. Francesco, invece a Bologna è S. Petronio) nell’entrare in concilio, noi avevamo l’idea che la chiesa fosse chi battezzava, le missioni, il papa. Nel Vaticano I° del 1869-70 erano presenti i rappresentanti dell’America Latina, ma erano europei, spagnoli o portoghesi, mandati in quei Paesi a cristianizzare i locali, così come lo era stato per l’Africa e per l’Asia. Questa volta, al Concilio Vaticano II°, a rappresentare le chiese degli altri continenti, erano davvero nativi di etnia africana o india o asiatica i quali portavano le sensibilità, la mentalità della propria terra. La cosa interessante è stato il dinamismo della chiesa: c’erano osservatori protestanti e, soprattutto, ortodossi convinti che tutti obbedissero al Papa in quanto capo della chiesa, invece c’era un’ampia discussione, c’era una maggioranza e una minoranza che discutevano, valutavano e uscivano poi delle cose alle quali magari la maggioranza non pensava.
Padre Lombardi aveva parlato di aggiornamento in cui si diceva che non si volevano trovare delle verità nuove, ma vedere in quale modo dire le verità di sempre in modo adatto alla gente di oggi. Il compito della gerarchia – allora – è quello di dire l’ultima parola, ma se è l’ultima perché prima ve ne sono state altre. La collegialità dei vescovi non è per togliere il primato del papa, è per aiutarlo a guardare. Ecco perché Papa Francesco nomina otto cardinali che lo aiutino nel suo compito: questa è collegialità. Il Vaticano I° definisce l’infallibilità con queste parole “il papa è infallibile dell’infallibilità della chiesa”. Quando Pio XII ha definito il dogma dell’Assunta il 1 novembre 1950, prima si è informato se la chiesa tutta crede nell’Assunta e quando si rende conto che la chiesa tutta crede nell’Assunta, allora ne definisce il dogma, però non ha definito se la Madonna è stata assunta da viva o da morta, non lo poteva fare e allora ne definisce l’assunzione al termine della sua vita. Dunque il papa ha la collegialità con i vescovi, i vescovi con il consiglio presbiterale, il clero con il laicato, quindi l’intero popolo di Dio.

 

Questa è stata la grande esperienza del Concilio Vaticano II°, anche perché Giovanni XXIII° aveva detto che non doveva essere un concilio dogmatico ma pastorale. A suo tempo c’era una barzelletta: il Card. Alfredo Ottaviani, famoso per essere al S. Uffizio, una mattina si era svegliato tardi, allora chiamò un taxi e all’autista disse: “presto, portami al concilio”. E si riappisolò. Quando si risvegliò si trovò in aperta campagna, allora riprese il taxista dicendogli “ma dove mi porti?” e quegli rispose “Al Concilio di Trento”.
Il Concilio Vaticano II° fu un concilio pastorale, cosa che non è stata accettata dagli amici di Lefevbre, perché dicono che un concilio deve essere dogmatico. È come nell’ambito dei consigli pastorali ognuno può dire quello che pensa e poi si tirano le conclusioni, per esempio, io leggo il Corano ma non sono mai stato musulmano, importante è che, quello che leggo, lo faccia diventare mio, questo vale per le verità: se rimangono al di fuori, servono a poco, se invece diventano parti della mia vita sono importanti.

 

La chiesa è il Popolo di Dio e noi siamo al suo servizio – ministero del Popolo di Dio in maniera pastorale e tutto questo coinvolge ognuno di noi e anche il mondo. Ad esempio, la “Gaudium et spes” è stata suggerita dalla “Pacem in terris”, scritta subito dopo la crisi della Baia dei Porci a Cuba, con primi attori Kennedy e Kruscev, i quali alla vigilia di una possibile terza guerra mondiale, dopo l’intervento pacificatore di Giovanni XXIII°, sostennero l’uno la tesi del rifiuto alla guerra, non per un favore a Kruscev ma al papa, l’altro non per un favore a Kennedy ma alla pace. E se l’enciclica Pacem in terris non è solo importante per le cose che dice, ma anche perché – per la prima volta – il papa scrive su cose umane, ovvero la pace e si rivolge a tutti gli uomini di buona volontà. Anche la Gaudium et spes è rivolta a tutti perché il valore di ogni essere umano, la famiglia, la cultura, l’economia, la pace, sono cose che interessano tutti. Ma allora, dove è finito Gesù Cristo? Si può rispondere che ciascuno deve rivolgersi a tutti gli esseri umani, ma lo devono fare in special modo i cristiani che hanno come modello Gesù Cristo, la sua vita e i suoi insegnamenti, senza la pretesa di sentirsi superiori ad altri. San Paolo, nella lettera ai Colossesi dice che il primo bene di ogni creatura è Gesù Cristo e tutto è stato fatto nel suo nome.
L’invito è vivere in un mondo di fiducia, dove i cristiani sono chiamati ad essere di buon esempio – anche ai non cristiani – a vivere sempre meglio perché, come diceva San Giovanni: “Chi crede in Cristo, sarà salvo”.
Dunque Cristo salva tutti, purchè si creda, col dono dello Spirito Santo: non dimentichiamo che tutto ciò che c’è di buono nel mondo è opera delle Spirito Santo, un’opera silenziosa, senza urla e fracasso e per capirlo possiamo usare questa metafora: “fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce”. Io credo che il concilio ci aiuta a vedere quanto di buono c’è nel mondo e quanto di buono deve fare ognuno di noi, perché il fatto di essere cristiani, più che un privilegio, è una responsabilità.

 

Gianni Cervellera

In questi ultimi anni pare vi sia un ripensamento nella lettura del concilio, un concilio che sicuramente è stato un momento di novità: se si guarda a certi libri di spiritualità pubblicati prima del concilio, è quasi tutto da cancellare.

Mons. Luigi Bettazzi

Certamente il modo di affrontare certe questioni, prima dell’avvento del concilio era più facile e più comodo. Se noi preti dicevamo che una cosa era così, chi non ci stava era fuori e questo era più comodo del proporre di camminare e studiare insieme. Poi c’è stato il ’68-69: anche Papa Benedetto dice nella sua autobiografia che nel ’63, a vent’anni dalla fine della guerra, c’era bisogno di un cambiamento e durante il concilio si guardava al papa e alla chiesa con una speranza perché si era convinti che se cambiava la Chiesa Cattolica, allora cambiavano tutti. E ci sono stati nel ’68-69 i giovani che dicevano (ve lo ricordate?) di fare l’amore non la guerra, certo vi sono state delle esagerazioni, ricordo le veglie dei giovani al sabato sera, al suono delle chitarre, la contrapposizione nella lettura di S. Paolo con i testi di Che Guevara. Nell’aver fatto muro contro muro forse – come sosteneva qualcuno – insieme all’acqua sporca abbiamo gettato anche il bambino.
A posteriori, mi sento di dire: meno male che c’è stato il concilio che ci può aiutare a capire questo popolo nuovo, più difficile da convincere. Diversamente non so dove oggi saremmo tutti quanti, salvo forse rifugiarci nel nazionalismo, come tante volte fanno i musulmani. Certo che se ci mettiamo gli uni contro gli altri, allora anche la religione diventa una scusa per erigere muri sempre più alti. Io credo che qualcosa è stato fatto, ma non tutto quello che si poteva per attuare veramente il concilio. Prendete, ad esempio, la chiesa dei poveri: in concilio non siamo riusciti a fare tanto: solo in America Latina nel ’68 ce l’hanno fatta a dire “facciamo la scelta preferenziale dei poveri” che certamente non vuol dire scegliere i poveri contro i ricchi, ma guardare ai poveri con gli occhi dei poveri. Noi invece guardiamo le cose con gli occhi di chi sta bene, anche per quanto riguarda l’economia, salviamo le banche, ma non guardiamo le famiglie che non arrivano alla fine del mese, o ai giovani senza lavoro e prospettive. Bisogna guardare ai poveri nel senso di garantire un minimo di sussistenza per una vita che si possa definire tale.

 

C’è un libro al quale avevo pensato quando già ritenevo che Papa Benedetto potesse dare le dimissioni, proprio perché è uomo di grande fede e sa che il primato è una cosa seria: lui aveva visto Papa Giovanni Paolo II° negli ultimi anni quando non era più lui a fare il papa. Dunque Benedetto XVI° , quando si rende conto di non essere più in grado di fare il papa come dovrebbe, dà le dimissioni perché sia un altro a fare il papa come dovrebbe. Il grido “viva il Papa” è dire “Viva il Popolo di Dio”, è la medesima espressione con cui incomincia la Dichiarazione del Concilio Vaticano I° che dice: “il Papa è infallibile perché gode dell’infallibilità della chiesa” con la collaborazione di tutti: per i preti con la collaborazione dei laici, per i vescovi con la collaborazione dei preti, per il papa con la collaborazione dei vescovi e questo non vuol essere un segno di diminuzione e minore stima, ma anche una garanzia che l’ultima parola che si dice sia quella garantita che il Signore vuole. Il grido “viva il Papa”, più che scendere dal papa in giù, è salire dal popolo in su, con le garanzie che ha il papa e la gerarchia quando realizzano ed esercitano il loro compito verso l’intero popolo di Dio.

 

Vi racconto un fatto: ero stato nominato vescovo da sei giorni e, siccome si andava in ordine di nomina, io che ero solo vescovo, ero ultimo, dopo cardinali, patriarchi e arcivescovi. Il mio vescovo il Card. Lercaro era uno dei quattro moderatori del concilio e siccome dovevo tornare a Bologna (dove, tra l’altro, mi sarei incontrato con i preti che, nel giorno di mercato, venivano in città) e gli chiesi se avesse bisogno di qualcosa. Lo trovai che discuteva con altri cardinali sul tema della collegialità e c’era stato un intervento di uno del Vaticano, il quale sosteneva che chi parlava di collegialità, lo faceva perché voleva togliere il primato che apparteneva al papa, in quanto il collegio è un’assemblea di uguali. Dossetti ed io avevamo preparato un discorso per il Card. Lercaro in cui si diceva che la collegialità è nello spirito romano, perché anche il concistoro dei cardinali è uno strumento di collegialità. Il Card. Suenens insisteva perché Lercaro si pronunciasse in tal senso, ma siccome Lercaro era restìo vista la sua veste di moderatore, Suenens lo invitò a delegare questo compito ad un altro. Alla fine toccò a me.
Il giorno dopo mi iscrissi a parlare e fui l’ultimo, intorno a mezzogiorno, per una decina di minuti, perché bisognava rispettare i tempi stabiliti dal regolamento. Cominciai a leggere il mio intervento e quando arrivai alla parola “collegio” – se è vero che la preghiera esprime la fede – ricordai la elezione di S. Mattia, l’apostolo che sostituì Giuda con le parole “Gettarono quindi la sorte su di loro e la sorte cadde su Mattia, che fu associato al collegio degli apostoli” (Atti 1,26). Dopo qualche giorno, il Card. Frings fa un grande discorso per dire che sulla collegialità non si torna indietro, si va avanti. Chi gli aveva preparato questo intervento? Joseph Ratzinger. Quando l’11 ottobre u. s., in occasione dei cinquant’anni del concilio, Benedetto XVI° ha voluto incontrare i superstiti del concilio (una trentina circa) si ricordò della mia citazione di allora su S. Mattia in tema di collegialità.
C’è un altro fatto, quantomeno curioso: la prima sera dell’incontro, mi trovavo davanti a uno dell’Uruguay che mi chiesi se fossi italiano: “Sì”, risposi, dopodiché si dipanò il seguente dialogo: “lei conosce Bettazzi?” sì lo conosco. “Lei sa se viene a Roma?” Sono sicuro che viene. “Chissà se potrò vederlo?” Lo sta vedendo!

 

La nomina di Papa Francesco è un segno dello Spirito Santo e di come questo suo stile sia un dono della Provvidenza per il suo messaggio che già il concilio aveva dato e che noi non eravamo riusciti a portare fino in fondo. Vi erano molti problemi assai delicati che non si erano potuti discutere in quanto Paolo VI° li aveva avocati a sé: i preti sposati, la pillola anticoncezionale, la chiesa dei poveri, la riforma della curia.
Una mattina un vescovo dell’India comincia a parlare del problema demografico, della pillola. Al chè il Card. Ottaviani prende la parola, in latino, e afferma che suo padre, che lavorava alle dipendenze di un fornaio, ha avuto undici figli.
Quando ero giovane era venuto da noi un componente protestante di un movimento nato in America che era venuto a Bologna per lavorare per l’Università. Il cardinale mi incaricò di prendere contatto con lui e venni a sapere che questo movimento faceva tutto sulla base di canzoni, quali “viva la gente”, e prendeva in considerazione le categorie più basse (il lattaio ed il postino), “di che colore è la pelle di Dio”, era bianca, rossa, gialla. Erano testi che tendevano ad unire le persone, testi contro il razzismo e questo mi fa pensare che quando noi siamo di fonte ad un problema, a noi viene da chiederci di chi sia la responsabilità, se non la colpa.

 

Il concilio, come mai non ha funzionato bene? Colpa del papa, dei vescovi, dei preti? Ci viene da puntare il dito, ma quando tu punti il dito contro un altro, non ti dimenticare che tre dita sono puntate contro di te. Ma di fronte a Dio, di fronte alla coscienza, tu che cosa hai fatto? Che cosa potevi fare? Che cosa non hai fatto? Che cosa farai? Io credo che a, cinquant’anni dal concilio, ognuno dovrebbe sentire un po’ di responsabilità per conoscerlo un po’ meglio e favorirne l’attuazione, anche perché noi, preti e gerarchia, qualche volta abbiamo bisogno di essere sollecitati e stimolati. D’ora in avanti, quando ci viene in mente il Concilio Vaticano II°, prima di puntare il dito contro l’altro, è bene pensare che tre sono puntate contro di noi. Ma dopo questa sera, sono solo due, perché avete già fatto qualche cosa.

 

Lo spirito della Chiesa in questo momento lo vorrei sottolineare con la presenza di Papa Francesco che ha già nominato questi otto cardinali che è già un segno di collegialità. C’è proprio bisogno di vescovi che vengono da tutto il mondo per aiutarlo a governare la Chiesa, soprattutto dopo gli ultimi avvenimenti. Questo papa che, attraverso segni molto semplici, sta riformando la vita della chiesa.
Dobbiamo cercare al meglio quanto il concilio ci ha dato: più partecipazione alla Parola di Dio, alla liturgia e con senso di responsabilità all’interno della chiesa. Fare comunione all’interno della chiesa è una fatica, come da voi con tre parrocchie e adesso con una e fare comunione non per chiudersi all’interno ma per aprirsi al mondo circostante e a tutto il mondo.
Diceva P. Congar: un vero concilio per essere percepito ha bisogno di almeno cinquant’anni; ecco siamo arrivati a questo traguardo, è ora di approfondirlo, di studiarlo, di metterlo in pratica. Stasera torniamo a casa sereni e contenti per quel poco che anche noi riusciremo a realizzare e che il Signore ci benedica.