Fabio M. Serpilli: “Mal’Anconìa”, rivivere la città

in Cultura

“Mal’Anconìa” di Fabio M. Serpilli

Ancona città matria

Veramente Ancona è matria di Fabio Serpilli nel senso più pieno ed esemplare della parola. Bisogna, come è capitato a me, percorrere e conoscere la città sotto la sua guida per intendere strada per strada, casa per casa, chiesa per chiesa, e anche e soprattutto squarcio di mare per squarcio di mare, storia, artigiani-artisti, disgrazie-lutti, leggende e infine aneddoti raccontati e descritti ogni volta con particolari e accenti diversi; ogni volta come se fosse la prima – e sempre nuova – volta. E il bello e il senso di tutto questo affabulare attorno a un’unica città è che la ragione non è per nulla localistica e strapaesana, ma squisitamente induttiva: come in partenza dalla singola tessera musiva, Fabio Serpilli segua l’intero distendersi del mosaico fino alle terre sconosciute e voli spesso verso l’alto per ‘controllare’ chi c’è lassù.

Molti altri poeti – e oserei dire la maggior parte – mi sembrano seguire il cammino opposto e leggere il luogo – c’è sempre un luogo, Firenze o Mantova o Genova o Milano -, che sia capitato in sorte, o scelto per elezione, con grandi pensieri, o, semplicemente con lenti e filtri, procurati altrove, importati e proiettati sull’orto di casa o sulla piazza del paese; capita anche a chi usa le piccole lingue, eccome! Serpilli invece no: luogo, lui, discorso poetico sono tutt’uno, senza che qualcosa si azzardi a incrinare o solo a scalfire la compattezza del rapporto e la coesione tra poeta e città. È proprio un procedere dal noto al poco noto e fino al misterioso che solo la città, quella città, i suoi abitanti quegli abitanti, la sua lingua quella lingua, con l’impennarsi impertinente degli ossitoni come risultano dalle frequenti cadute della sillaba finale, che consentono a Serpilli di scoprire, sorprendere le cose ragionevoli o, più spesso, assurde del mondo.

E la matria non può che rimandare alla madre ovviamente, continuamente ricordata, per accenni, in mille conversari, e qui presente mentre ancora fiola guarda dall’alto tutta Ancona aggrappata alle sue chiese quasi per non lasciarsi scivolare in mare verso oriente, verso l’altra sponda dell’Adriatico ‘delle genti’ e che ‘respira’ dentro il libro soprattutto come fonte e custode della piccola (e immensa) lingua-madre. A proposito della quale, fin da subito, è opportuno dire qualcosa. Serpilli, com’è noto, è stato ed è promotore e diffusore instancabile di quell’importante innovazione che a, partire dall’esempio dei grandi ‘dialettali’ moderni come Tessa, Giotti, Marin, Pierro ecc., e per merito soprattutto di Contini e di Pasolini teorico e critico, ha ripulito e purificato l’esercizio poetico nei vari dialetti italiani dal bozzettismo, dalla faciloneria, dal conservatorismo da osteria, dalla rissosità strapaesana ai limiti del razzismo che lo involgarivano e lo umiliavano. L’esercizio poetico, che sia nell’Italiano letterario o nel più chiuso ed umile dialetto, deve rispondere sempre e comunque ad esigenze spirituali, morali e ideologiche e attrezzarsi di conseguenza, a contatto con tutte le tradizioni poetiche possibili, dei necessari strumenti retorici, metrici ed espressivi che lo rendono potente ed efficace. Sto parlando delle caratteristiche tecniche e linguistiche di quelli che, per indicazione ancora pasoliniana, chiamiamo poeti neodialettali

L’anconitano di Serpilli risponde, ovviamente, a tutte queste esigenze. È un idioma locale ‘caricato’, dotato di tutte le possibilità espressive che un poeta richiede ad una lingua, soprattutto se è la ‘primizia’ del suo parlare e comunicare. All’interno di questa lingua, Serpilli, ad esempio, punta risolutamente sul valore della radice, del tema lessicale indipendentemente dalle articolazioni morfosintattiche; la sua lingua è tutta cose, figure, tinte, azioni messe al posto giusto, tanto da marcare con nettezza assoluta un paesaggio, uno scorcio, un personaggio o un’idea (tante idee), ma senza che appaia la struttura, la rete, che le sorregge; come lui stesso confessa, la sua poesia ‘disarticola la sintassi’: detto altrimenti la cancella, la rende in qualche modo inutile perché tutto icasticamente appaia per illuminazioni necessarie, rigorose, per ‘essenze’ depurate da ogni accidente, a volte la prima impressione è di trovarsi di fronte a testi futuristi… Ma c’è sotto anche e soprattutto una grande fiducia nel parlato e nel parlante, nella forza comunicativa ed espressiva del ‘dire’ marcando i termini semanticamente più importanti e come lasciando ai gesti e alle espressioni visive, oltre che alle numerose movenze proverbiali, di connettere e riempire i vuoti e al lettore quasi di ‘vedere’ l’azione, anche mentale, del personaggio. Come in questo finale di “Eco”: Dopo girato el giorno / le barche fite fite / spóndane al Lazareto / la Cità s’aritira tuta al Dòmo / cunchija fonda indóve / calato Dio rimaso el zòno // Dio io ‘nte l’eco disperzo. Importante è poi la ‘pietas’ nei confronti di un parlato ormai soprattutto popolare, ma, ancora di più, l’intenzione di mostrarne comunque la vitalità attraverso un intenso ed esibito lavorio di innovazione linguistica: la grammatica è messa a dura prova dai verbi che diventano sostantivi, dai sostantivi che diventano aggettivi e così via. La ‘sacralità’ del dialetto nativo è solo apparentemente violata: è proprio l’adattabilità alla creazione di neologismi che ne dimostra anzi la forza, la consistenza e la resistenza. E si ricordi che la fabbrilità neologistica è tipica dei veri poeti. Ecco allora in “Intermezo” che Si sòna Vivaldi / l’inverno su la ròla / e fòri néngue néngue un viulì s’infunìa…e ancora in ‘Fa disfà’: E te cum’arimèdi / al sbrégo mundiale / si le parole nun fa / che fadisfà le trame?

Alla creatività neologistica si accompagna anche una forte propensione al gioco verbale ironico e a volte tagliente, ma se tutto ciò riguarda, diciamo così, la superfice linguistica, altrettanto e forse più importante è ciò che accade nel profondo, laddove il discorso trova il suo vero significato poetico. Ho già accennato all’adesione totale al parlato e dunque alle conseguenti approssimazioni sintattiche che frangono il discorso in una sorta di caleidoscopio di termini forti, di tachisme linguistico a forte contrasto cromatico lungo la serie dal bianco al nero: sullo sfondo si intravede comunque l’azzurro del mare… Resta da indicare la capacità mimetica straordinaria di Serpilli nel ri-creare le modalità in cui si esprime il ‘pensare, il soffrire, il gioire’ popolari (e che riesce solo attraverso la pietas nei confronti della madre-matria a fare propri), quella capacità che si ritrova in grandi come Porta, Belli, Verga e pochi altri della nostra troppo aristocratica letteratura. Le ‘piccole lingue’, cioè, sono privilegiate nel comunicarci il bellissimo e spesso terribile mondo delle nostre classi subalterne solo se ce ne comunicano idee, passioni, visioni e letture del reale: detto altrimenti bisogna ‘rubare’ ai dialetti non solo suoni e parole, ma soprattutto l’anima. La grandezza dei testi dialettali, quando veramente lo sono, prima ancora che di natura linguistica è di natura antropologica. Lo sa bene Serpilli, autore di belle raccolte di narrazioni ‘colte direttamente dalle labbra dei popolo’ come dicevano nell’Ottocento i nostri studiosi di tradizioni popolari. I ‘novellatori’ che raccontano storie ed aneddoti al raccoglitore, che li stimola e li sollecita, esprimono giudizi, ricostruiscono avvenimenti, esprimono una filosofia ‘altra’, profonda ed amara, compassionevole e crudele, se non ci si lascia ingannare dalle apparenti ingenuità e dai luoghi comuni.

Ecco: è in questo nucleo profondo che si costituisce il rapporto tra Fabio Serpilli, i suoi personaggi e il suo popolo, se si vuole appunto la sua Mal’Anconìa, che è poi ‘malinconia’ di tutto il mondo. E il suo libro infatti è pieno di una amarezza delicata, ma invasiva e pervasiva. Mi ha ricordato subito uno dei libri più critici ed amari della Bibbia, il Qoelet, il famoso ‘giudice di mezzo’ che, meticoloso e implacabile, passa in rassegna le illusioni e le sconfitte irrimediabili degli uomini cui solo, forse, la misericordia divina può portare sollievo. Questo avvertire la sconfitta è il sentimento costante che pervade figure e figurine di Mal’Anconia, ma è una malinconia, quasi divina se, appunto, Vox populi vox Dei. E tra figure e figurine (il canonico Vincenzo, Quintino, Tito ecc.) c’è anche lui, Fabio, che simpateticamente ne ha assorbito lingua e filosofia per spingersi più in là, ‘disarticolandone’ la lingua e amplificandone le ansie sapienziali. Perché poi sulla solida base dell’antropologia popolare Serpilli innesta temi tipici della filosofia d‘oltralpe, si direbbe da Bergson all’esistenzialismo francese, ma declinandoli sulla sponda di una desolata ironia. La sua poesia è alla ricerca di istanti di sospensione totale, quasi mancanze di respiro, delle cose e degli uomini in cui si dia l’epifania del niente, l’intuizione dell’assurdità del tutto, la lucida solitudine dopo lo scacco di ogni parola ed ogni attesa in quanto vale de più un dulore/che la fasulità (“Corp’ in fiore”). Una poesia a forte intonazione epigrammatica in cui l’ampia visione della città e della gente è destinata, programmata quasi, a un fermimmagine improvviso, inaspettato, che sveli ogni inganno delle scienze e delle fedi: Serpilli la chiama anche Sparénza ‘sparizione’. È il gelido fermimmagine, a dirla tutta, della morte, che sembra comunque consumarsi in un Ade precristiano, in cui il poeta insiste a ‘mirare’ la morte come se non fosse la fine di tutto, ma una sorta di intermittenza provvisoria, dolorosa, angosciosa. Per queste ragioni Serpilli può essere annoverato, con Pascoli e Pasolini, ad es., tra i poeti della morte. La morte porta con sé, come in tante diverse realtà antropologiche, ovviamente, una sua danza, ben ritmata, in cui un ruolo importante è giocato dalle ossitonìe prodotte dalle ben note apocopi anconitane come in “Citazió” Samuele sta senpre / “Spetando Godó” / ancó in Ancona / “spetamo qualcò”// Chi, co’? Una particolarità idiomatica diviene così emblema della condizione esistenziale perché Io i verzi l’ho robati a la vita come si dice in “Ladro”.

Poeta della morte dunque, ma non esageriamo, o, meglio, non dimentichiamo i versi dedicati ai poveri, ai disastri della guerra, a Raffaella e alle intimità familiari, alle presenze incantate della città e dei suoi scorci e nonostante tutto e, anzi, proprio per tutto, scettico poeta della Fede che è sempre lì, in fondo ad ogni strada, ad ogni storia e ad ogni strofa, ad ascoltare senza rispondere, a tormentare senza salvare, a sedurre per poi abbandonare, ma comunque sempre lì, come la pietà e come compagna silenziosa della morte, nei versi della Sapienza e in quelli della risata; sempre lì come Ancona, anzi come San Ciriaco …gigante el Dòmo // Chi è stato el genio / che l’ha méso là (“Eco”), dove risalta anche la costante precisione delle particelle deittiche, tipica del parlato popolare. Nel corpo a corpo tra il poeta e Lui (sempre Serpilli, anche quando non sembra, dialoga con qualcuno che lui conosce bene e anche fin troppo bene…) si arriva infine alla sezione finale “Lengua de Aleluja. Salmi mii” parafrasi piena di intemperanze/impertinenze, appunto, dei Salmi biblici, dove risplende e ‘riscalda’ una delle più belle, dolci, amorose ‘bestemmie’ che il sottoscritto abbia mai ascoltato…te, mago de tera, / negativa de ‘n mondo / fulminato da lumia, / sei la bugia più bèla / la fasulità più vera (“Te”).

Marzio Porro
(docente di storia della lingua presso Univ. Stat. di Milano)