Don Amato Cini (Fermignano 4 marzo 1919 – Urbino 27 novembre 1987) ha vissuto con la poesia o meglio la poesia ha indirizzato il suo mondo culturale e spirituale legato al suo ambiente d’origine ed alla sua formazione. E’ nato ed è cresciuto nel mondo agricolo di Limara (in zona franosa o acquitrinosa, suggerisce il linguista Sanzio Balducci), una casa padronale ora scomparsa, il luogo dei Cini da più di cinque secoli a Fermignano nella riva destra del Metauro vicino alla Pieve di San Silvano.
Oggi quella pieve è quasi totalmente distrutta, la canonica che era stata scuola elementare di campagna dall’unità d’Italia per più di un secolo è stata restaurata per realizzare un agriturismo che non riesce a decollare. Quella contrada sacra e popolare del medioevo, continuamente rianimata nella rete delle pievi della piana verso Urbania e delle cappelle carolingie verso il Furlo e il Tarugo, continua ad essere affascinante per il paesaggio agricolo e invitante per la vita sociale e la dimensione spirituale.
Da quell’ambiente, da quel mondo magico, Amato Cini è passato al seminario di Urbino per intraprendere la sua formazione al sacerdozio diocesano. Ha studiato in un ambiente stimolante, ricco di giovani che erano stati formati, fra le due guerre, dai preti murriani che venivano dalla Romagna – Bagnacavallo nella diocesi di Faenza – portati da mons. Valentini, direttore del seminario diocesano e vicario generale urbinate (fra gli altri don Gino Ceccarini, don Italo Mancini, don Ferminio Poggiaspalla, don Ugo Del Moro, don Licio Guidi poi parroco della pieve di San Silvano).
La poesia e la bellezza indirizzano il suo immaginario intellettuale e di lettura della realtà spirituale e sociale: nelle sue prime poesie dominano la campagna di San Silvano e la situazione bellica e della ricostruzione, è un poeta un po’ enragé. Don Amato viene consacrato prete nella chiesa di Santa Veneranda il 23 luglio 1943 alle 7 del mattino, in un periodo di sofferenze per i morti nella guerra in pieno disastro e per la povertà della gente (un fratello giovane è mobilitato nei Balcani e tornerà allora gravemente malato). La prima Messa di don Amato sempre a Santa Veneranda è il 26 luglio 1943 alle ore 11, nel giorno nuovo dell’Italia: arresto di Mussolini e caduta del fascismo. I documenti che abbiamo parlano dell’organizzazione dell’ordinazione, non dei giorni che seguono. Si esultava per la fine della guerra e per il volto nuovo dell’ordine sociale.
Don Amato era coinvolto in quel contesto. Anche se è “prete di Dio e del Popolo” (Cf.Un nuovo Sacerdote del Signore: D. Amato Cini”, “La Voce del Pastore”, Fermignano, Luglio 1943.) , non è un prete orientato alla politica, come don Gino Ceccarini, ma alla cultura ed alla poesia con prospettive ecclesiali (l’insegnamento nel seminario diocesano e poi regionale di Fano). Il mondo che cerchiamo di interrogare è espresso nei testi letterari, che interpretano la nuova situazione sociale.
I libri di poesia sono nove. Due opere portano le belle incisioni di Walter Piacesi. In particolare “Un difficile Dio” di don Amato Cini è un libro d’artista, venti poesie, preziosa editoria d’arte, edizioni Ca’ Spinello, tipogtafia Age, grafico Aberto Bernini, presentazione di don Italo Mancini, quattro incisioni stupende di Walter Piacesi, Gennaio 1977. Nell’incontro Mostra delle opere di don Amato Cini, foto, materiale iconografico, giornali. Interventi di Sergio Pretelli, Gastone Mosci, Germana Duca, Raimondo Rossi, Abramo Cini, Roberta Sanchini, Michele Gianotti, Francesco Colocci, don Romano Ruggeri.
Amato Cini, mio zio poeta
Innanzitutto vogliate scusarmi se l’emozione tradirà ciò che voglio dire dello zio Amato Cini che è stato per me motivo di esempio e di orgoglio sia in vita sia dopo la sua morte tramite i suoi quaderni.
Non avrei mai pensato che, dopo quasi trent’anni dalla sua scomparsa, mi sarei trovato qui a testimoniare la sua vita. Nella mia vita lavorativa mi sono occupato principalmente di numeri (budget,stipendi, consuntivi, ecc.) in una società di ricerca del settore chimico. Nonostante ciò ho sempre coltivato e amato la poesia, passione trasmessami dallo zio. Non parlerò del pensiero poetico, delle emozioni che la poesia mi trasmette.
Nel tempo si sono occupati di lui eminenti critici come Geno Pampaloni, Giorgio Barberi Squarotti, Carlo Bo, Giuseppe Amoroso, Italo Mancini e Angelo Jacomuzzi con il quale parlai a lungo, approfittando della sua disponibilità, prima della stampa dell’opera postuma. Se ne occuparono anche tanti altri, anche di Urbino, dopo la pubblicazione postuma.
Come professore il mio ricordo va a quando in terza media ci diede da studiare a memoria “Il passero solitario” di Leopardi. Ricordo, come adesso, che pochissimi erano riusciti ad impararla bene. Quando arrivò il mio turno mi inceppai nei versi:
A me, se di vecchiezza
la detestata soglia
evitar non impetro
quando muti questi occhi all’altrui core
e lor fia voto il mondo, e il dì futuro…
Girandomi attorno mi diede uno scappellotto che mi fece cadere l’antologia e mi mandò al posto dandomi 4. Deluso forse che anch’io non fossi stato all’altezza delle sue aspettative. In seguito ci abbiamo riso sopra tante volte.
Ricordo quando leggeva dei classici ad esempio l’ Amleto. Si trasformava completamente. Era un vero attore. La classe rimaneva paralizzata dalla forza espressiva. Se il tempo me lo consente credo opportuno soffermarmi sull’ultima raccolta “Tra cielo e abisso” che ho curato.
Dopo la sua morte mi recai con mia sorella Bruna nella casa dello zio, in via Valerio. Guardando sulla scrivania mi saltò all’occhio un foglio di quaderno grande con la data 26.XI.87 – era il giorno antecedente la sua morte – nel quale aveva scritto una poesia. Leggendola con molta emozione ho capito di avere tra le mani un importantissimo documento. Sulla stessa scrivania vidi anche un quaderno nel quale c’erano diverse poesie inedite, tutte datate. A quel punto decisi di prendere tutti i quaderni dai cassetti affinché, nel tempo non andassero persi.
Tornato a Milano iniziai a trascrivere le varie poesie controllando che non fossero già state pubblicate. Questo mi fu facile perché lo zio datava sempre i suoi scritti. Ciò che trovai più difficile fu decifrare la sua calligrafia. Tanti erano i quaderni che trovai con alcune poesie non pubblicate – non so se ritenute non degne di essere inserite nelle precedenti pubblicazioni oppure non complete o dimenticate.
Comunque d’accordo con l’editore e il prof. Jacomuzzi che curò la presentazione si decise di inserirle nella raccolta. Ritornando su l’ultima poesia, come si può notare dal manoscritto non c’è alcun titolo. A scanso di equivoci preciso che il titolo “L’ultimo canto” è stato dato da me, d’accordo con l’editore, intendendo dire che si trattava dell’ultimo scritto – dell’ultima poesia.
Per quanto riguarda il titolo “Tra cielo e abisso”, esso nasce da versi di alcune sue poesie, come “Anima antica” della stessa raccolta. Ho ritenuto che quel titolo si adeguasse molto bene alla sua attività poetica. Intitolarlo solo “poesie postume”, come mi suggerì don Italo Mancini al quale inviai il dattiloscritto, non avrebbe valorizzato totalmente il lavoro di don Amato. A pubblicazione avvenuta, telefonicamente mi ringraziò e si complimentò per il titolo. Ecco, questo è quanto mi premeva precisare. Ringrazio i presenti, in particolare il prof. Mosci e prof. Colocci che sono per me un riferimento sicuro per la cultura di questa meravigliosa “città della poesia”.
Terminerei con una “pennellata” di poesia apprezzata anche da Antimo Negri:
Mi rapirono i sensi luminose colline,
numerose palpitarono fulve
al sole di giugno
ninfe
coronate di ginestre.
Urbino, 26 febbraio 2016
Abramo Cini
ALLA SCOPERTA DI DON AMATO CINI POETA
di Germana Duca
Amato Cini, nato a Fermignano il 4 marzo 1919, si è dedicato alla poesia per oltre trent’anni: dall’esordio, avvenuto nel 1957 con Le rive del tempo, ha continuato a scrivere fino al 26 novembre 1987, il penultimo giorno della sua vita, pubblicando ben otto raccolte. Egli ha lasciato anche molti testi inediti, poi confluiti insieme ad alcune foto nel libro postumo Tra cielo e abisso (1989), voluto dal nipote Abramo Cini “per fare cosa gradita ai suoi estimatori e soprattutto per completare il suo messaggio”.
In Amato Cini l’adesione alla vita appare quasi sempre legata a inquietudini e turbamenti dell’anima. Un’anima sensibile, che capta l’ansimare e l’aggrovigliarsi del mondo, il travaglio della natura, l’attesa dell’umanità, ora sopraffatta dalla paura, fra sussulti di violenza e degrado, ora consolata dalla presenza divina, misteriosamente avvertita come scatto di bellezza e Ragione di tutte le cose. Di tale intreccio parla l’autore stesso, sul finire degli anni Sessanta, in un’autopresentazione quando scrive che, nella sue poesie, il senso del caos biblico è tutt’uno con l’azione dello Spirito, messaggero di cieli nuovi, aperti alla speranza. Una speranza cristiana e non solo, allargata com’è alla ricerca di altre salvezze possibili, fra cui quella offerta dalla poesia. Amato Cini conosce bene il potere salvifico della scrittura poetica. Barriera di luce da opporre al nulla, essa trasforma brandelli di vita in un abito nuovo, fiorito. Un po’ come accade in natura quando, nelle selve incenerite dal fuoco, rinascono giovani rami.
La poesia di Amato Cini è densa di richiami naturali e culturali; la fluidità compatta del suo linguaggio ha un ritmo originale che scaturisce dalle fibre di una persona vera, dallo spazio delle sue radici, dal tempo da lui attraversato, fra mutamenti inarrestabili in ogni campo. Tanto altro ci sarebbe da dire, ma affidiamoci alla lettura dei testi per scoprire i tratti salienti della vicenda umana e spirituale del nostro poeta sacerdote.
Egli, come sappiamo, nasce ai primi di marzo. La madre, con le sue malinconie, ereditate dai monti nativi, e le improvvise allegrie – come quelle dei galli intorno ai covoni di grano – gli dona animo inquieto e stupore. Anche il mese appena iniziato, con la selva che torna a suonare le sue bizzarre armonie, con i temporali e le improvvise schiarite, lascia in lui un’impronta durevole. Il padre, ricordato come aratore e fauno odoroso di biade, tranquillo e vigoroso, è il suo mito solare. Lui – che lavorando cantava e fischiettava, riposava all’ombra di querce giganti e, a sera, prevedeva il tempo osservando il cielo – gli ha trasmesso la forza del sole. Il poeta la ritrova ogni anno al fiorire delle ginestre.
La vita prosegue, lo splendore dei colli sembra lontano da Urbino: qui c’è solo un balcone senza fiori e tanta solitudine. Per lenirla Amato, come un bambino che ha paura del vuoto, invoca e attende il Signore. In un mondo insidiato dalla devastazione e dall’indifferenza, anche Dio sembra nascondersi, farsi difficile. Ma il poeta continua a cercarlo e, nel buio, a chiamarlo sua “disperata certezza”. Con intelletto lucido e turbato, il poeta continua a indagare la realtà, dominata dall’enigma dell’uomo terribile all’uomo, creatura ebbra di sangue, stonata come un cembalo rotto. Una visione meno cupa troviamo nei versi in cui il poeta ricorda, viaggiando da Pesaro a Urbino, sullo sfondo di un paesaggio inconfondibile, la scolaresca pronta alla maturità da cui si è appena accomiatato.
Toccante è pure il ricordo di se stesso ragazzo vicino alla madre, che lo incoraggia a non avere paura mentre attraversano insieme la passerella sul fiume Metauro, per recarsi da casa al camposanto. Nel poemetto, la memoria – fra suggestioni paesaggistiche e mitologiche – si proietta su un presente difficile, dominato da avidità e ignoranza. Ormai ridotta a niente la civiltà contadina, resiste il valore dell’insegnamento materno.
Anche poco prima della fine Amato Cini riflette sulla speranza. Definendosi “astronauta dell’anima”, guarda con stupore il creato e gli spazi soprannaturali in cerca della Ragione “che incide invisibile umani destini”, desideroso di poter “sorprendere l’eco dell’Aquila librata sopra le acque”. Persino nella pena dei giorni, si può dunque avvertire un preludio di vita. Proprio come succede a un boccio di rosa che prima di aprirsi, senza vederla, sente lievitare la luce.
Da Tra cielo e abisso, 1989
Astronauta dell’anima
Per sere franose non alle fronde che fremono,
proiezione del mio delirio,
racconto la pena dei giorni
in dissolvenza di forme slabbrate
quasi colombe cadenti dal cielo in cupi fondali
ma la Ragione che incide invisibile
umani destini ricerco,
che per mille rivoli e rami
m’ha spinto nel tempo chiamandomi
a nome e le sue difficili cifre,
in tutto ciò che germoglia, si muta
s’innalza e declina,
nell’immemoriale ammonite
catturata dentro la roccia
dove prima era mare,
nell’insetto e nel fiore
brevi d’un giorno
nella follia e nella saggezza.
E non per un volo ossessivo di morte
penetro dentro la nube
né per naufragio nel nulla
ma per sorprendere l’eco dell’Aquila
librata sopra le acque, che era
prima dei gigli
prima delle rose celesti.
Astronauta dell’anima
travalico metafisici spazi,
vivo nel buio un preludio di vita
come la rosa racchiusa nel boccio,
che sente senza vederla
lievitare la luce.
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UNILIT – Università Libera Itinerante
Collegata all’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo
Circolo Acli – Centro Universitario
Conversazioni di Palazzo Petrangolini
Giusto Gostoli srl-materiali edili-Fermignano
Vivarte – www.urbinovivarte.com
Fano Città – www.fanocitta.it
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Poeti d’Urbino 1
Don Amato Cini
“Ho girato nel vento”
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Venerdì 26 febbraio 2016 ore 16,30
Piazza Rinascimento 7 – Urbino
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Saluto di Sergio Pretelli, Presidente Unilit
Coordina Gastone Mosci
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Germana Duca presenta e commenta alcune poesie
Alla scoperta di don Amato Cini poeta
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Francesco Colocci
Un poeta nella città
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Giustino Gostoli
Il mio professore all’ITI
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Raimondo Rossi
Un prete poeta da disegnare
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Le foto di Michele Gianotti
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Libro d’artista. Un difficile Dio di Amato Cini, premessa di Italo Mancini
e quattro incisioni originali di Walter Piacesi (Ca’ Spinello 1977).
(L’acqua dentro la roccia, nota di Carlo Bo, 4 incisioni di Walter Piacesi, Forum 1983)
Walter Piacesi L’amicizia con don Amato Cini: lettura di un testo
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Romano Ruggeri
Il mio amico poeta don Amato
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Poeti d’Urbino 2, 3 e 4, Silvano Ceccarini Mercoledì 30 marzo, Zeno Fortini
Venerdì 22 aprile ore 11 a Barchi, e Paolo Volponi Mercoledì 4 maggio.
Collaborano: Silvia Cuppini, Germana Duca, M. Laura Ercolani, Michele Gianotti,
Maria Lenti, Gastone Mosci, Nicoletto Nicoletti, Fulvio Palma, William Rivière.