Premi L’Aquila Zirè d’Oro 2013
19 aprile ore 18.00 – Auditorium Carispaq.
Premio racconto a Germana Duca di Urbino. Premio poesia Lella De Marchi di Pesaro
Premi L’Aquila Zirè d’Oro 2013 intitolati ad Angelo Narducci
Premiazione del concorso letterario che si tiene a L’Aquila presso l’Auditorium della Carispaq venerdì 19 aprile 2013 alle ore 18 in occasione della presentazione della rivista dell’Istituto Aquilano di Abruzzesistica e Dialettologia, “Novanta9”, a. X, n. 16, Aprile 2013, diretta da Mario Narducci. Vi partecipa la giuria composta, fra gli altri, da Angelo Paoluzi, Mario Narducci, Liliana Biondi, Fabio M. Serpilli, Maria Lenti, Gastone Mosci, Raimondo Rossi.
RACCONTO IN LINGUA
I classificato . Germana Duca Ruggeri (Urbino); II classificato – Massimo Consorti (S. Benedetto del Tronto); III classificato – Paolo Borsoni (Ancona).
POESIA IN DIALETTO
I classificato – Daniela Cortesi (Forlì); II classificato – Gabriele Di Giorgio (Città Sant’Angelo); III classificato – Emilia De Vecchis (Capistrello);
POESIA IN LINGUA
I classificata – Lella De Marchi (Pesaro); II classificata – Anna Elisa De Gregorio (Ancona); III classificata – Anna Rita Tinari (L’Aquila).
POESIA D’AMORE
I classificato – Franca Maria Canfora (Roma); II classificato – Franco Ciorelli (Lanciano); III classificato -Mauro Barbetti (Osimo) .
Nella XII Edizione del Premio L’Aquila Zirè d’Oro – 2013
La scrittrice urbinate Germana Duca ha vinto il Premio della sezione Racconto in lingua. Lo pubblichiamo con l’autorizzazione dell’Autrice.
I sette sosia
di Germana Duca
Amelia diceva di avere incontrato la madre (persa quando era bambina) non solo nei sogni, ma anche dal vero. E se Daria, sua figlia, le chiedeva di raccontare lo faceva con grande trasporto:
“La prima volta l’ho vista alla fiera. Era ferma davanti a una banca di fiori. La testa castana, pettinata come in fotografia. A un tratto si è voltata verso di me, ha mosso la bocca, ha sorriso.”
“ Poi?”
“Poi più niente. E’ svanita.”
“Alla festa dell’Albarice, invece?”
“Era alla processione, a pochi passi da me. Ho riconosciuto la voce: cantava “Mira il tuo popolo”… Mi sono girata, ed eccola lì!”
“Ti ha detto qualcosa?”
“Macché! E’stato un momento. Una goccia su un vetro. Solo una forma.”
Daria sembrava perplessa:
“Smettila, mamma. E’ la tua immaginazione.”
“E’ verità!” lei l’ammoniva. “E può capitare sette volte nella vita. Ogni persona ha sette sosia, non lo sai?”
Quella trovata materna dei sette sosia si riaffacciò al pensiero di Daria quando Amelia a sua volta scomparve. Perché non sperare di rivederla? Se non intera almeno un soché, un dettaglio. Le sarebbe bastato rintracciare la fronte, densa di opposti pensieri, o la fiezza bianca, mandata all’indietro, obliqua tra i capelli più scuri, o la fossetta sullo zigomo, che rendeva radioso il suo viso; o anche solo la solennità di un passo, la lentezza di un gesto. Ma la vita reale, nel giro delle strade di Ancona, lontana dalle moltitudini, con incontri prevedibili, non offriva granché.
Così, spesso Daria ricorreva alla televisione. Viaggiava col telecomando di canale in canale, giorno e notte, per ore, non per capire o sapere, ma per guardare le facce infinite che lo schermo racchiude. Con la fermissima fede di scoprire prima o poi, se non sette, almeno una attendibile sosia di Amelia. Speranza regolarmente delusa: tra film e talk-show, soap-opera e spot, dirette, giochi a quiz, concerti, televendite, festival e tiggì, della madre neanche l’ombra, quasi si fosse estinta, con lei, un’intera specie di donna. La figlia ormai dubitava di fare l’incontro felice.
Daria riprese a sperare in occasione di una breve vacanza, gli ultimi giorni di ottobre, a Parigi. Sui metrò, alle frequenti fermate, tra la gente a fiotti in entrata e in uscita, o forse lungo la Senna, in mezzo a barbone e clochards, ma meglio ancora al Louvre, al Museo d’Orsay, dinanzi a figure e volti ritratti da artisti famosi, chi lo sa, avrebbe potuto avere fortuna. Nelle sale dei musei parigini, Daria fu toccata in realtà da molte emozioni. Poteva benissimo appartenere alla madre la candida schiena della donna in turbante, nel Bagno turco di Ingres. Sua era senz’altro la fronte, e suoi i capelli e il sorriso della Gioconda, inconsapevole di lei e dei mille devoti che le si assiepavano intorno. Ad Amelia si era certamente ispirato Manet per il bianco nudo del Déjeuneur sur l’herbe. Daria indugiava su tali pensieri, implorando un più tangibile segno.
E la madre, finalmente toccata, glielo volle inviare, quel segno. Fu l’ultima notte di ottobre.
Il pullman del tour “Paris la nuit” svoltava ora qua ora là, imboccando strade su strade, nel buio scintillante di luci, per restituire i diversi turisti, ormai vinti dal sonno, agli alberghi. Solo Daria, ostinata, invece di abbandonarsi sul sedile, continuava a inseguire dal finestrino i rari passanti e la sfilata delle insegne multicolori. Faceva il possibile per leggerle tutte, senza saltare una sillaba. Come accadeva da bambina quando la madre – rare volte -, sospeso il lavoro dei campi, la conduceva in città. Poteva essere la tarda estate, ma anche un principio di primavera. Con occhi svagati, Amelia diceva: “Ti porto al Passetto. Andiamo a vedere la bellezza del mare.”
Col filobus numero tre, da Posatora, scendevano alla Stazione per prendere l’uno, che le portava in cima al Viale. Lasciato il Monumento alle spalle, si inoltravano fra pini e panchine, verso la scalinata dell’Ascensore. Salivano insieme sulla terrazza più alta, nell’aria celeste, ridendo se la brezza le spettinava, o alzava a ruota le loro sottane. Lassù respiravano il salmastro, in silenzio, finché non le distraeva un più largo suono di onde, un’acqua intrisa di luce.
Daria ancora indugiava sull’orizzonte adriatico, quando fu riscossa da una improvvisa frenata del pullman. L’autista, senza apparente spiegazione, si accostò al marciapiedi, spense il motore e rimase al suo posto, muto per diversi minuti, nel disappunto generale: nessuno capiva il motivo di quella sosta forzata. Nemmeno Daria, inizialmente.
Poco dopo, però, fu proprio lei, guardando oltre il finestrino, a vedere la verità, la verità rivelata! Una scoperta abbagliante che la lasciò attonita, folgorata. A un palmo dagli occhi, lì fuori, – perché non poteva gridare? – c’era Amelia, sua madre.
La tenera Amelia, intera. Estesa e distesa, campeggiava sulla facciata di un palazzo, sopra il verde oltremare di una saracinesca abbassata, con la sua forma italiana, in corsivo: “Amelia”, stampata in avorio, in caratteri fini.
Daria bevve a piccoli sorsi ciascuna vocale e consonante, quasi fossero crome e biscrome di un canto, battere e levare, in punta di cuore.
“Che ci fa il suo nome a Parigi? Chi l’ha scritto per me?”
“Ora è qui che lei tiene negozio?” si chiedeva incredula.
E continuava a contemplare le sei lettere belle, il desiderio in parte appagato, ringraziando Dio nella notte di Francia.
Sopra l’inquieto parlottare degli ignari viaggiatori, a Daria sembrò di udire la voce della madre:
“Siamo nomi. Siamo solo questo. Nomi scagliati verso l’infinito.”
Voce cara, sillaba di rivelazione. Voce amata. Seme di compassione, labbro di umanità. Eco di un cosmo di parole: siamo nomi. Siamo solo questo…
L’autista intanto, riacceso il motore e imboccato l’ultimo boulevard, al microfono annunciava l’hotel Mercure-Montmartre.
Il cuore di Daria come un calice vuoto continuava ancora a tintinnare contro il vetro del finestrino.
****
XII Edizione Premio L’Aquila Zirè d’Oro 2013
Primo premio per la poesia alla pesarese Lella De Marchi.
Pubblichiamo con l’autorizzazione dell’Autrice, i tre testi inediti aquilani, che confluiranno nel suo imminente secondo libro di poesia, “Stati d’amnesia”, che segue “La spugna” (Raffaelli 2010).
LA TERZA MADRE
sono sempre la bambina che non mi hanno
detto, un’ipotesi alla nascita data come vera
mai verificata (la luce del giorno
non ci prende per intero)
ho sempre quattro anni, forse sei, il tempo
scorre assai velocemente incorniciando vuoti,
spesso dentro la memoria
la maestra ha steso le lettere intorno
all’aula, come si stendono su di un filo
i panni ad asciugare (la maestra è come
una seconda madre)
– non sai mai quale
delle due ti ha insegnato
l’alfabeto, cammini con i piedi
piantati sulle doppie
lingue delle madri –
– la lingua del padre
è un poco da temere,
una strada da non
seguire, che non ti deve
appartenere –
sono sempre la bambina che non mi hanno
detto (sono io, la terza madre
di me stessa), sopra quei panni stesi
su di un filo ad asciugare ho costruito il mio altare
di parole
per, non vista, uscire da quell’aula
per cercare la bambina mai vissuta
sono sempre la bambina che non mi hanno
detto (puoi vedermi o non vedermi), la luce
del giorno non ci prende per intero
LA TERRA
è un cerchio di limbo, ordinato perfetto
rotondo, massa magmatica rossa
che bolle, nucleo ad attrazione costante
continua, flusso delle coscienze interrotto
da brevi balenanti big bang degli spazi
come temporali estivi dal cielo
che guardi dal cielo che cerchi
improvvisi
è la vita, stagnante dei lati, il caldo
del brodo che ci ha preceduti, prima ancora
che tutto dal fumo tornasse al suo moto
e in ogni contorno
è un sole lontano, aperto a chi abita
il giorno raggiro di ciò che è rotondo, linee
pseudo tracciati degli occhi, invocati
perduti, strade e sentieri, scavati nei luoghi
di ogni possibile incontro disegni, celati
dentro ai misteri
la terra è l’aprirsi del vero dove
non siamo, la lingua dei nostri universi perduti
cresciuta su sabbie lambite dai mari in terre
disperse, e altrove
riemerse
IL LOMBRICO
lo stesso movimento, destra
sinistra indietro avanti
viceversa, un ritmo sempre
uguale, allungarsi poi contrarsi
in spasmi sincopati ma senza
variazioni rilevanti,
il lombrico aspetta il gesto
sconosciuto il colpo
che lo spezzi in due metà
identiche
simmetriche
sincroniche
il lombrico ha la purezza
incontaminata
del narciso