Il quartiere di SantAndrea e Porta Lavagine
Il Nuovo Leopardi n 25 a cura di Gastone Mosci

Urbino, Alberto Calavalle: Diario Urbinate

in Lettere e Teatro

In ogni caso Urbino è rimasta una città senz’anima, perché ha perduto i suoi abitanti e non ci sono speranze,perché non ci sono più i bambini che sono il nostro futuro. Sono stati cacciati fuori le mura gli artigiani che una volta riempivano la città di suoni dei loro strumenti e facevano veri oggetti d’arte come lo scalpellino che lavorava per la Sovrintendenza del Palazzo ducale in un fondo a Porta Lavagine o lo stagnino Zagobello che riciclando barattoli di latta fabbricava lumini a petrolio che brillavano come oro. Stanno chiudendo anche i negozi, solo lo scorso anno tra venti e trenta . In piazza ha chiuso uno dei bar storici. Non ci sono più le osterie, luogo di aggregazione e di risate. Per inciso, in una osteria di Valbona, durante la guerra , una sera, dopo la chiusura obbligatoria su ordinanza, alcuni amici si erano chiusi dentro per prolungare la serata insieme. A mezzanotte i carabinieri bussarono alla porta. “Chi è?” Chiese l’oste preoccupato. “La forza pubblica”. Gli fu risposto. “Alora se c’è la forsa butta giò la porta”. Fu la risposta burlona e genuina di uno degli avventori che oggi non sarebbe più possibile.

 

Nella nostra Urbino non ci sono più i forni, che all’apertura delle porte al mattino inondavano le vie di profumo di pane e dove in occasione della Pasqua le mamme portavano a cuocere da casa le cresce dolci e al formaggio con effusioni di profumi ancora più intensi.

 

Oggi per il centenario della morte di Raffaello si vorrebbe ricreare in città l’atmosfera di un tempo, ma come fare se non ci sono più le condizioni di un tempo, se le case sono rimaste senza famiglie Se i locali di aggregazione tirano avanti con servizi che scoppiano,perché trovano difficoltà burocratiche ad adeguarsi. E se le vie e le piazze quando non ci sono gli studenti sono vuote e senza più le voci, i suoni degli artigiani, gli incontri con gli abitanti del contado?

 

 

Urbino, 12 febbraio 2018

La città dell’anima era quella dove in occasione delle feste di Natale e di Pasqua, le vie e le piazze si riempivano di cittadini e di persone che tornavano da fuori per fare festa insieme ai parenti, era quella dove gli studenti universitari erano ospitati nelle famiglie e venivano trattati come figli. Oggi i rapporti con le famiglie non ci sono più, perché queste si sono trasferite altrove. La città dell’anima era quella degli artigiani che d’estate lavoravano fuori in un concerto di strumenti da lavoro e che alle nove del mattino si ritrovavano insieme a fare colazione nelle osterie. Era quella dei bambini che in ogni vicolo erano tanti da organizzare due squadre per una partita di pallone. Era quella delle donne che nel pomeriggio scendevano fuori a trovare un posto al sole e chiacchierare insieme sferruzzando una calza di lana o cucendo una camicetta, era quella dei forni, che dopo il pane erano pronti a cuocere i dolci delle mamme. Era quella delle fiere del sabato con le bancarelle che da Porta Valbona salivano in piazza, per finire davanti a S. Domenico, mentre il Mercatale si riempiva di animali di grossa taglia come buoi e vitelli e Piazza delle erbe accoglieva ortolani e contadini che portavano verdure e uova di produzione locale. Era quella dove, al Mercatale i contratti di compravendita del bestiame erano conclusi con una stretta di mano sulla base dell’onestà con garanzia e pagamenti dilazionati a quindici giorni , tradizione venuta a mancare con la venuta di commercianti di pochi scrupoli che compravano e non si facevano più vedere.

 

Oggi la città Campus è piena di studenti, ma potrebbe trovarsi in sofferenza, perché, mentre aumentano le esigenze degli studenti per miglioramenti di stanze e servizi igienici, questi sono rimasti fermi per la maggior parte al passato. C’è da aggiungere che la città Unesco trova non sempre facile ad adeguarsi a normative che impongono nuove soluzioni abitative.

 

C’è poi il problema dei collegamenti viari che merita di essere trattato a parte.

 

 

Urbino, 15 febbraio 2018

La città dell’anima era quella di Carlo Bo e del suo seguito e di quell’aria di poesia che egli avvertiva quando scendeva in Piazza Rinascimento per andare al Circolo cittadino sempre nella stessa poltrona, o quando andava a sedersi nella sala da pranzo dell’albergo Italia sempre di fronte al Colle delle Vigne che lo ispirava. Era quella di Volponi che, tornando alla sua casa da Piazza della Repubblica si riempiva gli occhi delle vedute dei colli dalla via delle mura e dai torrioni aperti sul lato ad occidente ed a meridione della città. Era quella di Italo Mancini che a mezzogiorno della domenica in duomo, con le sue omelie riusciva a fare piena la chiesa di cittadini e di studenti.

 

La città dell’anima era quella degli incontri ravvicinati di cittadini e abitanti del contado nelle botteghe, nelle vie, nelle piazze. Era quelle di tutte le scuole che avevano sede nella città storica e degli allievi che la vivevano e la inondavano all’entrata e all’uscita dalle lezioni, come la Scuola del Libro che aveva sede in quel santuario del bello che è il Palazzo ducale. Ora le scuole sono quasi tutte fuori dalle mura e quando sono dentro come il Pascoli, i bambini vi vengono portati e riportati via con i pulmini, privandoli di un contatto diretto con la città. Come altre scuole, la Scuola del Libro è spostata in periferia e per giunta in una costruzione di cemento non bella da vedere. Dentro è rimasta l’Università, ma è come se fossa a sé stante, senza un rapporto stretto con i cittadini.

 

L’anima della città si è frantumata nei quartieri che con i loro palazzoni anonimi hanno perduto anche il confronto architettonico con la città storica. Oggi i contatti non sono più ravvicinati e conclusi con calorose strette di mano, ma raffreddati su virtuali fili d’aria dei cellulari. Ma questa ormai è un’usanza comune,, come è diventata comune quella dei messaggi non più estesi a mano su lettere di intere pagine, ma abbreviati e risicati fino all’osso su piccolissimi schermi.

 

 

Urbino, 16 febbraio 2018

Dicevo delle scuole che sono state allontanate dal centro storico, ma così i ragazzi perdono il contatto con qualcosa di bello che dev’essere amato e rispettato fin da giovani. Provo a rilanciare una mia proposta del Festival delle Arti che coinvolga le tre Scuole d’Arte che sono presenti in Urbino per un’uscita di uno o più giorni dalle aule e disporsi a piacere con i loro insegnanti per le vie e le piazze del centro storico. Potrebbe essere in prossimità del centenario della morte di Raffaello e ripetersi anche ogni anno per ricordare il divino pittore, per riconfermare in un modo più diretto il legame con uno splendido passato, ma anche per un divertimento dei giovani, che potrebbero trovare fonti di ispirazione ovunque, per una festa della città invasa da centinaia di giovani, per una gioia degli occhi di cittadini e turisti, che potrebbero ammirare gli artisti nel momento dell’atto creativo. Diceva Giovanni Paolo II che gli artisti sono immagine di Dio creatore. Ma temo gli ostacoli della burocrazia e altro.

 

 

Urbino, 17 febbraio 2018

Voglio aggiungere che Urbino col Festival delle Arti potrebbe fare un gemellaggio con Mantova che da anni organizza un suo Festival della Letteratura e che ha avuto il riconoscimento di Capitale della Cultura. Mantova e Urbino nel Rinascimento hanno avuto rapporti molto stretti sul piano artistico e letterario che si sono consolidati anche con matrimoni tra casate: Guidobaldo di Montefeltro con Elisabetta Gonzaga e poi Francesco Maria I della Rovere con Eleonora Gonzaga. Urbino per meritarsi il titolo di capitale della cultura, non può solo vivere di passato. Deve dimostrare di saper organizzare qualcosa di importante anche nel presente.

 

Come già osservato, di questo passo Urbino stenta ad adeguarsi ai tempi anche nella sua forma attuale di città campus.

 

Altra nota dolente è l’isolamento della città. La ferrovia è stata chiusa, mentre nei progetti dell’Italia post unitaria doveva ed aveva iniziato a proseguire verso la Romagna. Oggi quella ferrovia avrebbe potuto direttamente metterci in comunicazione con uno dei bacini turistici più importanti d’Italia e d’Europa con ricadute economiche molto positive per Urbino . L’Italia del dopoguerra ci ha isolati ancora di più perché le strade promesse come la superstrada Fano-Grosseto, la Pedemontana e il riassetto della strada per Pesaro non sono state fatte e, come diceva Volponi, tutte le strade si restringono andando verso Urbino. La Regione non ci ha aiutato, perché, mentre la superstrada Fano- Grosseto è ferma da decenni a Canavaccio, Ancona ha realizzato le superstrade del Quadrilatero che la mettono in comunicazione veloce con le regioni ad Ovest e che sono direttamente collegate tra loro formando appunto un quadrilatero. Come dire chi troppo e chi niente.

 

 

Urbino, 6 marzo 2018

Tornando indietro, la città dell’anima era anche quella che al mattino si animava di rumori, di voci, di suoni delle campane delle chiese che dalla casa presso il Mausoleo dei duchi avevo imparato a distinguere una ad una, da quelle del Duomo, a quelle di S. Francesco, di S. Bartolo, di S. Sergio, di S. Polo, di S. Lucia, di S. Agostino, dei conventi delle suore. Oggi la maggior parte delle campane restano in silenzio, perché le parrocchie sono chiuse

 

La città dell’anima era quella che alla sera vedevo riempirsi di piccole luci che a poco a poco illuminavano tutte le finestre delle abitazioni del centro storico. Era una festa di luci che davano un senso di calore, non solo perché erano luci calde di quel bianco che tendeva al rosa tipico delle lampadine tradizionali, ma anche perché facevano pensare a famiglie che si riunivano per la cena, a case che si riempivano della presenza di persone residenti in città. Quand’ ero ancora un bambino la città illuminata, nella sua forma allungata e circondata dalle mura sollecitava l’immaginazione e sembrava una grande nave in movimento tra le onde dei colli.

 

Nell’occasione dell’ultimo Natale, osservando la città dalla stessa casa, si avvertiva un senso di vuoto dovuto alla uscita di quasi tutti gli abitanti dalla città e dalla assenza nella città campus degli studenti che non erano in Urbino perché partiti per le vacanze, tanto che le finestre erano tutte buie. Qua e là solo la presenza di rade luci al led delle strade, luci che per quel colore bianco ghiaccio davano una sensazione di freddo oltre che di vuoto.

 

Alberto Calavalle