Conversazioni di Palazzo Petrangolini estate 2015
L’INCONTRO “NON CANTA LA RAGANELLA” DA GOSTOLI A FERMIGNANO
Il meeting sulla pipa nella Azienda di Materiali Edili di Giusto Gostoli di sabato 8 agosto – ore 19/23 – a Fermignano, ha avuto successo di pubblico e di proposta culturale. Gostoli con un socio ha acquistato anni fa una azienda in fallimento, Non canta la raganella di Loreto Stazione, ed ora rilancia la pipa nel contesto del Metauro. Nell’incontro ha presentato l’operazione di recupero, poi l’architetto Veschi ha illustrato il restauro dello stabile dalla fabbrica a centro di servizi di accoglienza, e Bruto Sordini di Cagli ha raccontato tutto della sua azienda Don Carlos Pipe di Cagli, che produce trecento pipe ogni anno per l’America. Dopo un intermezzo, si è passati all’arte e alla letteratura: Silvia Cuppini sulle pipe dei pittori dell’Impressionismo e del Novecento francese, Gastone Mosci sulla pipa del commissario Maigret, Sergio Pretelli sulla pipa del preside Paolo Crepax, Mario Narducci sulla pipa del nonno aquilano, e Cino Sassi su don Italo Mancini e la sua pipa, exposé che volentieri pubblichiamo.
LA PIPA DI DON ITALO
di Cino Sassi
Gastone mi ha chiesto un breve intervento sulle particolarità del rapporto fra fumatore e pipa e ha scelto fra gli amici che fumano o che hanno fumato la pipa, don Italo Mancini. Perché ha scelto don Italo? Credo per due motivi: anzitutto perché la presenza fisica o spirituale di don Italo agli incontri culturali estivi organizzati da Gastone è stata continua; in secondo luogo perché il ricordo che abbiamo di don Italo è molto legato all’uso che faceva della pipa.
Per don Italo, come per la maggior parte dei fumatori di pipa, si tratta di una situazione complessa che comporta un certo lavorio e la disponibilità di una attrezzatura da portarsi sempre con sé: la pipa, il tabacco, il curapipe, gli scovolini, l’accendino o i fiammiferi.
Il curapipa è uno strumento metallico costituito da tre attrezzi: lo scovolino o cucchiaino per raschiare i residui di tabacco bruciato con la precedente fumata, la pressa o pigia tabacco, e lo spillone per forare il tabacco troppo pressato e facilitare il tiraggio.
Don Italo pur possedendo varie pipe, usava preferibilmente una pipa di tipo calabash, caratterizzata da una curva molto pronunciata fra il fornello e il bocchino, tanto che quest’ultimo dopo la curva si trova a livello della parte superiore del fornello. E’ la pipa usata da Sherloch Holmes.
La pipa di don Italo era super usata, tanto che il fornello era molto intasato e il bocchino era consumato dalla continua pressione dei denti.
Gli esperti sostengono che il tarso che si forma nelle pareti del fornello costituisce una condizione fondamentale per il sapore e la gradevolezza della fumata.
La pipa di don Italo di tarso ne aveva acquisito nel tempo in abbondanza, tanto che anche dopo la pulizia con lo scovolino, lo spazio per contenere il tabacco nuovo, era molto esiguo.
In genere don Italo usava una miscela di tabacchi: il clan dal classico profumo di cioccolata e il trinciato dal profumo di sigaro toscano.
Pressato il tabacco nel fornello avveniva l’accensione, usando a volte l’accendino a fiamma laterale, a volte i fiammiferi.
L’accensione sprigionava, per ragioni inspiegabili, molte scintille che inevitabilmente cadevano sulla maglietta che don Italo indossava abitualmente a preferenza delle camicie. Ma le scintille causavano dei piccoli fori nella maglia, provocando a dire di don Italo le proteste e i rimproveri della mamma che si occupava dell’abbigliamento del figlio. Per lui era come una birichinata per far arrabbiare la mamma.
Direi che per don Italo fumare la pipa non era un vizio tabagico, ma era un gesto estetico, perché anche se l’operazione di preparazione e di accensione durava qualche minuto, la fumata vera e propria si esauriva in pochissime tirate. Infatti la pipa si spegneva molto presto. Direi che la pipa di don Italo, anche se imboccata, era quasi sempre spenta.
Uno dei ricordi che ho di don Italo è quando lo vedevo nei pomeriggi d’estate seduto all’esterno del bar da Franco, ove era montata, in cima a piazza Rinascimento, una pedana con tavolini e poltroncine. Don Italo munito della sua pipa spesso spenta, leggeva o scriveva. Sembrava inseparabile dalla sua pipa, come se questa gli favorisse la meditazione e l’ideazione.
Cino Sassi
LA PIPA E PAOLO CREPAX
di Sergio Pretelli
Chi era Paolo Crepax? Un fisiologo di notevole caratura. Laureato in Medicina all’Università di Padova. Si formò in carriera, come Assistente, nell’Università di Bologna, nell’Istituto di Fisiologia umana. Entrando nella terna dell’ordinariato nel 1958.
Nella facoltà di Farmacia di Urbino, della quale fu Preside, insegnò Anatomia patologica, Farmacologia, Fisiologia umana. A 37 anni ordinario (era nato a Venezia il 14 settembre 1921). Fu tra i promotori della Fondazione dell’Isef, poi facoltà di Scienze Motorie. Fu affascinato dalla città di Urbino, da Carlo Bo e dagli urbinati. Anche quando si trasferì all’Università di Bologna, mantenne la sua residenza in Urbino, poi a Pesaro. E, per suo desiderio, è sepolto al Cimitero di San Bernardino in Urbino.
Crepax un uomo di scienza
Uomo di scienza con numerose esperienze all’estero: di studio e di ricerca, specie negli Stati Uniti.
Per i suoi meriti scientifici rimando al saggio di Riccardo Cuppini, in “Maestri di Ateneo” i docenti dell’Università di Urbino nel Novecento (A. Tonelli, a cura), Urbino 2013, p. 219.
In Urbino, alloggiò nell’appartamento del direttore, al Collegio Universitario “Il Colle”. Morì all’improvviso, il 22 maggio 1974 a Pesaro.
Conoscevo di vista e di fama Crepax. Lo incrociavo spesso in bicicletta sulla strada che porta al Colle dei Cappuccini, dove egli risiedeva. Spesso tutto sudato, pedalando da forsennato in piedi anche per la salita verso il Colle. La gente del popolo, i vecchi del Ricovero, il personale del Collegio e dell’Università, lo chiamavano “il matto”.
Viveva al Collegio del Colle
Io fui delegato dal Rettore Carlo Bo alla direzione dei Collegi Universitari nel 1979. Paolo Crepax era ancora popolarissimo tra il personale. Ne raccontavano imprese ed eventi di vita quotidiana. Salaci e boccacceschi e lo stile di vita pieno di eccessi. Le mie memorie sono quindi tutte di riporto.
Mi chiedevo come un tipo così, un eccesso in tutto e libero da ogni regola, potesse andare d’accordo con la Direttrice Giulia Zannini, una donna tutto regole, proveniente dal “Piccolo” di Milano, inflessibile nella sua morale, nel suo stile di vita, severa col personale e con gli studenti nell’osservanza delle regole e più per il decoro dell’Istituzione. Glielo chiesi direttamente e rimasi sorpreso perché essa, non solo gli voleva bene, ma ne aveva addirittura una venerazione, tanto da giustificargli tutto. Compresi che il denominatore comune era la musica. Classica, ma anche jazzistica che Crepax aveva seguito nei locali della Jazz-Section, nei fumosi locali di Harlem: da quelle parti per i suoi studi scientifici. Dal jazz aveva assimilato il suo senso di libertà ed il carattere libertario. Un amore per la musica ereditato dal padre, compositore e violinista che insegnò anche nel Conservatorio di Pesaro
In dialogo con la direttrice Zannini
Crepax associava l’ascolto della musica alle fumate di pipa, sia in compagnia (con la Zannini, Zambarbieri, Kunico ed altri appassionati) dentro e davanti l’ufficio della direttrice. O da solo nel suo appartamento, abbinando riposo e meditazione. Aveva una pipa di pregio ed un tabacco inglese profumatissimo. Dalla finestra del suo appartamento uscivano insieme le note della musica classica con quel fumo profumato che saliva fino alla portineria. Il personale, su ordine della direttrice, ne aveva assimilato il rispetto e la considerazione per l’eccezionalità dell’uomo. In quei momenti se arrivavano telefonate al suo indirizzo, non venivano trasmesse. Eccezione per Carlo Bo, Giorgio Fornaini, Osvaldo Cappellini.
La sfida fra un fumatore professore e un fumatore operaio
Crepax era estremamente affabile con il personale. Tra essi un addetto alle pulizie esterne, fumatore di pipa. Il quale nelle dispute col professore, sottolineava che la differenza, più che nella pipa era nel tabacco. Lui fumava il trinciato forte. Un tabacco che, per l’operaio, il professore non avrebbe sopportato. Crepax accolse la sfida e comprò il trinciato forte, sapendo che una fumata non era sufficiente per un confronto equo.
L’operaio Artemio si guadagnò la pipa di Crepax
Alla fine del pacchetto e della sfida Crepax convenne che Artemio aveva ragione e gli regalò la sua bella pipa di pregio, dicendo onestamente che aveva comprato una pipa nuova perché l’incrostazione di quel trinciato forte non consentiva più alla sua vecchia pipa di trasmettere il piacere e l’essenza del tabacco inglese e del suo profumo, togliendogli la concentrazione dell’ascolto della musica, soprattutto di quella classica. Ed anche di quella jazzistica, pur ricordandogli il fumo del trinciato, i fumosi locali di Harlem. Un gesto, apprezzato dall’operaio che abbandonò la sua vecchia pipa col fornello di legno ed il cannello di canna. Con la pipa di Crepax anche il trinciato forte diventava più soave. E lui si sentiva più importante.
In bicicletta Bologna Urbino
Un altro ricordo rimasto impresso a tutto lo staff del collegio era legato a un suo ritorno da Bologna, in bicicletta. Era stremato da far paura. Lasciò la bicicletta nel prato e ingurgitò un boccale d’acqua del rubinetto dicendo al portiere che andava in camera a dormire e di non venire disturbato per nessun motivo. Nemmeno dal Rettore. Dormì un giorno e mezzo, senza bere e senza mangiare creando grande apprensione in tutto il personale. I dipendenti: della sartoria sottostante, della portineria e quelli degli spazi esterni, captavano ogni minimo rumore o segnale di movimento riferendo tutto e subito alla direttrice. Nel pomeriggio del secondo giorno, impercettibile usci dalla finestra il profumo dolcissimo del suo tabacco inglese con un sottofondo musicale di Mozart . Fu gioia grande, una grande liberatoria per tutti.
Un uomo libero di grande umanità fumava la pipa
La dimostrazione di un affetto condiviso, senza eccezioni, da tutto il personale che esaltava la grande umanità di Paolo Crepax, il matto. “Uno spirito dotato, come sottolineava Carlo Bo, di doni naturali e di una intelligenza che a momenti sfiorava la genialità. C’era sempre qualcosa da imparare dalla sua conversazione, continua Carlo Bo, così soggetta alle impennate e alle sorprese della curiosità, talchè veniva spontaneo chiedersi se Crepax non fosse più poeta che scienziato, più artista che ricercatore”.
Il fumare la pipa per lui non era un vizio, ma uno strumento per concentrarsi meglio su quella prima passione innata della musica che lo caricava nella sua attività professionale, conferendogli un’aureola di grande umanità e di libertà intellettuale che è un privilegio di pochi.
E Carlo Bo ne aveva colto l’essenza. Di un personaggio che seppe esprimere nei suoi comportamenti, anche come fumatore di pipa, “una rara lezione di umanità e di libertà intellettuale”.
Sergio Pretelli
LA PIPA DI MIO NONNO E NON SOLO
di Mario Narducci
Quando Gastone Mosci mi chiese un intervento per l’incontro di Fermignano voluto da Gostoli, la memoria mi andò subito alla pipa di mio nonno materno, Vincenzo Pompei, detto Cencio, per essere egli alto e magro sì che negli abiti ci nuotava alla grande. Era stato emigrante in America dove erano nati quattro dei suoi figli, tra cui mia madre, che tornò in Italia con tutta la famiglia all’età di dieci anni, imbarcata su un “bastimento”, come raccontava lei. In America mio nonno aveva fatto il minatore e ebbe le gambe fracassate il giorno in cui un ascensore precipitò nel pozzo: per questo mio nonno camminò un po’ curvo per tutto il resto della sua vita.
E’ questo il ricordo che ho di lui, insieme al fatto che aveva sempre una pipa in bocca: il fornetto di creta grezza, una cannuccia di sambuco per aspirare il tabacco. Il tabacco era sempre di fortuna: una sigaretta da stritolare, meglio se un sigaro toscano, un lusso se si trattava di tabacco vero e proprio come quello che durante l’occupazione tedesca, stando noi di famiglia sfollati a Vigliano d’Abruzzo, il suo paese, gli riportava mio fratello che razzolava tra gli occupanti e che aveva lo stesso nome del nonno.
Mio nonno non aveva collezioni e pipe di ricambio, né la dotazione per la pulizia. La pipa era sempre la stessa di creta grezza acquistata ai mercatini di paese durante la festa patronale; per la pulizia usava un ferro delle calze, a misura, e si aiutava con potenti soffiate per completare l’opera. In paese la pipa la fumava immancabilmente dopo i pasti, seduto sull’uscio di casa, come in Città, all’Aquila, del resto, nei mesi che stava con noi dopo la vedovanza. Non gli ho mai chiesto a cosa pensasse mentre aveva la pipa in bocca; ma dal volto sereno si capiva che era in pace con se stesso e che la pipa lo aiutava a moltiplicare all’infinito questa pace. Oltretutto mio nonno era di poche parole, ma quelle poche erano condite di proverbi e di detti popolari, come volesse dar valore con citazioni sapienti a quel che diceva. La pipa di mio nonno, dunque, era la pipa dei poveri. Ma il fumo che se ne aspirava era uguale, quando il tabacco era buono, a quello dei ricchi, anche se mio nonno non ha mai fumato sprofondato in una poltrona.
La pipa di mio nonno, certo. Ma potrei anche dire della pipa dei Santi, visto che anche alcuni di loro l’hanno fumata, come il belga Damiano de Veuster, missionario tra i lebbrosi dell’isola di Molokay, che la fumava di continuo per neutralizzare il fetore che proveniva dai poveri corpi in putrefazione tra i quali viveva portando la parola di Dio. Morì di lebbra anch’egli ed oggi è santo in virtù del suo eroismo cristiano.
A differenza di oggi, una volta il clero non fumava affatto, né pipa né sigarette. Il clero usava invece il così detto tabacco da fiuto, per lo più aromatizzato alla menta, che custodiva in una piccola tabacchiera da tasca a chiusura ermetica: due tocchi con la nocca del dito medio sul coperchio, poi il rito della cauta apertura, quindi la “presa” misurata con il pollice e l’indice e un fiuto profondo. I vecchi frati, soprattutto, che nell’operazione erano maestri, dicevano che liberasse la testa, prevenisse i raffreddori e li curasse anche.
Tra i fiutatori, lo raccontava Andreotti che gli era corregionale, il ciociaro Leone XIII, il Pontefice della Rerum Novarum. Un giorno che passeggiando tra i giardini vaticani il Papa aprì la tabacchiera per la consueta “presa”, ebbe l’idea di offrirne al cardinale che l’accompagnava il quale declinò l’invito dicendo: Santità, non ho questo vizio. E il Papa di rimando: Se fosse un vizio, Eminenza, avrebbe anche questo.
Per quel che mi riguarda ho provato più volte con la pipa. Ma avendo ritenuto sempre troppo ingombrante l’occorrente per fumarla, ho desistito. Fumare la pipa, infatti, richiede la pazienza di un certosino, quella che a me manca. E’ il motivo principale, del resto, per cui ho smesso di fumare anche le sigarette: quel pacchetto nelle tasche mi dava fastidio e per di più non uso borselli. Dal che ho dedotto che per fumare ci vuole vocazione. Ma non sono intollerante verso chi lo fa. Avere la pretesa di stabilire ciò che è bene e ciò che è male, è proprio degli intolleranti.
Mario Narducci
Circolo Acli-Centro Universitario piazza Rinascimento 7 – Urbino
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Venerdì 24 luglio 2015 ore 19 – Cortile di Palazzo Petrangolini. Armonie al crepuscolo. Complessi di musica rinascimentale e barocca. Urbino Musica Antica 47 Ed,. Ingresso libero.
Sabato 8 agosto ore 19 – Fermignano. Non canta la raganella. Arte nella Azienda di Materiali edili di Giusto Gostoli nella zona industriale in via Antonio Meucci 2 tel.0722-331704. Non canta la raganella. Meeting sulla pipa. Introducono Giustino Gostoli, arch. Mauro Veschi e Bruto Sordini della Don Carlos Pipe. Interventi di Silvia Cuppini (Segnali di fumo: la pipa), Gastone Mosci (La pipa del commissario Maigret), Sergio Pretelli (La pipa e Paolo Crepax), Cino Sassi (Don Italo Mancini e la pipa), Fabio M. Serpilli (La pipa di Saba) e Mario Narducci (La pipa dei nonni).
Settimana dedicata a Mario Pomilio, Paolo Volponi, Rolando Ramoscelli e la pittura di Fulvio Paci. (17 – 22 agosto).
Lunedì 17 ore19 – Fulvio Paci, pittura e grafica nel tempo. Mostra di trenta opere e Presentazione del Catalogo a cura di Gastone Mosci, Ed. Vivarte 2015. Intervengono Oliviero Gessaroli, Susanna Galeotti e Maria Lenti. Buffet. (Fino al 22 agosto, ogni giorno, ore 17-20)
Mercoledì 19 ore 11 – Rolando Ramoscelli, coautore del volume Urbino a tavola (2012) discute con il prof. Rodolfo Coccioni su EXPO MILANO 2015 e la cucina di Michelangelo nel Ducato di Urbino. Buffet.
Ore 21,15 – L’opera narrativa Il quinto evangelio di Mario Pomilio (nota archivistica di Wanda Santini, saggio di Gabriele Frasca, Roma, L’Orma, 2015, pp. 504, € 26,00) nella Conversazione del biblista Giuseppe Pulcinelli: Il Quinto Evangelio e gli apocrifi.
Giovedì 20 ore 18,00 – Il Quinto Evangelista (teatro) di Mario Pomilio. Letture, dialoghi, note critiche, memorie, il luogo del racconto e della profezia. La parola ai partecipanti. Coordina Gastone Mosci.
Venerdì 21 ore 19,00 – A scuola d’arte. La cultura pittorica di Fulvio Paci e la promozione artistica ad Urbino. Conversazione di Silvia Cuppini. Buffet
Sabato 22 ore 21,15 – Memoria di Paolo Volponi (1924 -1994). Il prof. Giuseppe Lupo introduce a L’incredibile onda creativa e moderna di Paolo Volponi.
IN MARGINE ALLA MOSTRA DI FULVIO PACI
PALAZZO PETRANGOLINI 17-22 AGOSTO ORE 17-20
Fulvio Paci, l’arte comunica la vita
di Gastone Mosci
Fulvio Paci è una persona che riflette spesso sulla sua condizione di uomo e di artista che lega la vocazione estetica ad una quotidianità che ha molti volti, molte espressioni operative: vivere innanzitutto nella dimensione della città e del lavoro, partecipare alla vita familiare nel segno della collaborazione e della comunità, esercitare il proprio ruolo d’artista come testimone di una cittadinanza aperta. Dopo 50 anni di cosciente adesione al proprio mondo progettuale (dal 1965), i visibili segnali della sua personalità si possono cogliere nella disponibilità alla formazione permanente continua in una partecipazione ricca di entusiasmo e di visibili curiosità. Vorrei segnalare il contesto dei primi venti anni che lo vedono a Urbino: da ragazzo nella Scuola del Libro, sezione di decorazione con Pietro Sanchini – autorevole xilografo, poi direttore, uno dei maestri di quella scuola d’arte -, in seguito alla ricerca di nuove esperienze nella pubblicità d’arte a Milano e a Roma, tre anni significativi fra l’insegnamento a Cagliari e la frequentazione nel periodo estivo della stamperia di Giovanni Galli (in quel tempo a Urbino) per entrare nel mondo dell’acquaforte. Il tempo della formazione si svolge fra la Scuola d’Arte e il primo mondo del lavoro.
All’ascolto di Carlo Bo e di Paolo Volponi
La sua identità, nel legame di Urbino con l’universo del Montefeltro, trova compiuta espressione nelle parole di Carlo Bo, quando presenta il Premio di Cultura Frontino Montefeltro, come espressione di “una terra per l’uomo e che l’uomo ha rispettato”, di luoghi che indicano “la carta delle grandi strade dell’uomo: l’arte, lo spirito religioso, l’umile concezione del lavoro”. Si tratta di una autentica consapevolezza, di una illuminante identità antropologica e, direi, di partecipazione alla scommessa di Paolo Volponi quando afferma che la Scuola del Libro è l’università dell’incisione. Il luogo stesso partecipa alla creatività, non solo il suo Appennino contadino, ma l’insieme della vita moderna esprime visioni nuove. Questo ambiente fluido d’umanità e di cultura ha dato personalità e ragioni civili a Fulvio Paci e a sua moglie Enaide Galli, predisponendo la loro emigrazione nella terra di Brescia, nel lombardo-veneto, nel mondo industriale del Nord. Lo spirito rinascimentale urbinate e la tradizione rurale della civiltà dell’Adriatico dialogano con la società europea industrializzata attraverso la mediazione della cultura artistica.
L’incisione e il mondo delle stamperie d’arte
Ecco dunque la nuova consapevolezza per altri trent’anni di Fulvio Paci: la centralità sociale e tecnica dell’essere artista e del produrre la bellezza nella postmodernità. Quanto resiste del fascino di Urbino? Quanto si relaziona al mondo della calcografia e delle stamperie d’arte. Il rapporto con l’officina della stampa calcografica è dominante nel mondo urbinate degli anni sessanta e settanta del secolo scorso: è l’epoca del boom dell’incisione e quindi delle stamperie d’arte. Già agli albori degli anni sessanta Emiliano Sorini e Franco Cioppi a Roma danno vita a vari recapiti per l’incisione tirata dagli urbinati: sono insieme al “Torcoliere” e poi alla 2RC, grande laboratorio di sperimentazione italiana. Sorini si trasferisce successivamente a New York e apre la stamperia dell’Atlantico. Arnoldo Ciarrocchi, in quell’epoca, è ancora torcoliere principe alla Calcografia Nazionale. Dopo varie esperienze Renato Volpini fonda a Milano lo studio-laboratorio Multirevol per l’incisione e la serigrafia con varie puntate a Parigi e in Olanda. A Pesaro, Piergiorgio Spallacci e Walter Valentini avviano il laboratorio dell’incisione con stamperia, scuola di grafica, edizioni d’arte e galleria, le famose Edizioni della Pergola, molto apprezzate a Parigi. A Urbino negli anni settanta Vincenzo e Marcello Tiboni danno vita alla Stamperia La Posterula: stampano la tiratura della famosa litografia di Francesco Carnevali, “Studio per un paesaggio invernale”, 1973, che è allegata al primo fascicolo della rivista “Il Leopardi”, diretta da Valerio Volpini. Carlo Antognini in Ancona promuove le Edizioni L’Astrogallo, che sono livres de peintre. Le iniziative “urbinati” per la grafica furoreggiano: dominano a Roma e a Milano.
Con i torcolieri Luigi Corsini e Giovanni Galli
Chi si diploma alla Scuola del Libro trova subito il lavoro come torcoliere. In questo ambito la figura dell’incisore urbinate Luigi Corsini (1937-2007) emerge accanto ai grandi stampatori romani usciti dalla Scuola del Libro: dal 1963 al ’66 è alla 2RC accanto a Cioppi e lavora per artisti come Burri, Fontana, Turcato, Capogrossi. Nel ’67 si sposta a Brescia e inizia la sua avventura calcografica lombarda (stamperia-laboratorio L’Acquaforte).
Fulvio Paci è legato ai Corsini e ai Galli (Carla e Giovanni), una cordiale famiglia di incisori e stampatori. Prima, a Roma, vede ed apprezza l’incisione dei grandi artisti della 2RC. Poi, a Brescia da Corsini, e a Bergamo da Giovanni Galli per trent’anni è suggestionato dall’ambiente milanese e da personalità che lo affascinano, come Giò Pomodoro, marchigiano, scultore e orafo con lo studio anche a Pietrasanta. Giovanni Galli era stato chiamato nei primi anni sessanta come torcoliere da Giorgio Upiglio e Renato Volpini, i quali avevano aperto la stamperia “Grafica Uno” in un garage di via Generale Fara a Milano, un luogo suggestivo e misterioso. Gli anni settanta sono ovunque dedicati all’incisione ma l’ambiente guida la ricerca di Paci, che è preso dal nuovo paesaggio fra il fascino della cultura di formazione e la tecnologia delle capitali dell’industria. Questo campo operativo che fa i conti con Giò Pomodoro, del quale il Galli è il torcoliere di fiducia, alimenta l’intelligenza pittorica di Fulvio Paci, attenta anche agli stimoli di Aligi Sassu e di Orfeo Tamburi; Mauro Corradini ne rileva la creatività del nuovo ciclo e l’ambientazione libera, utopica del racconto di “Amanti e Cavallo”.
Un messaggio fra ecologia ed espressionismo astratto
Gli anni novanta portano il segno della lotta contro la cementificazione, la scelta ambientalista si fa urgente, la natura domina i suoi interessi. Questa ripresa pittorica di natura ecologica amplifica i problemi dell’uomo e della convivenza civile. L’artista è preso da momenti d’emergenza e da messaggi predisposti: le sue opere, “Mi piace il paesaggio” e “Paesaggio deturpato”, sono gridi d’allarme. Il cromatismo ha un compito d’indirizzo. Predispone dunque il rientro a Urbino e si dedica ad una intensa attività espositiva. A cavallo del nuovo millennio approda alla fotografia in un primo momento come forma di compartecipazione creativa: la documentazione e la guida per realizzare il collage, dove però in primo piano è sempre la pittura e la composizione dell’ambiente E’ il tempo del suo “espressionismo astratto”, così lo chiama. Paci interpreta i “colori come simboli”, come sottolinea nelle sue riflessioni; si avvale dell’acrilico con l’uso della sabbia e delle terre: è il suo modo per dire anche che il giallo è un elemento femminile, il rosso la sensualità maschile, il blu la spiritualità
L’insieme dei mezzi tecnici e della manualità delle composizioni, la pluralità delle espressioni artistiche, sempre molto vive, costituiscono la proposta artistica di Fulvio Paci, che non è solo pittura o grafica ma anche messaggio, che dialoga con la vita. Sui suoi lavori creativi si apre a conversazioni pensose e avvincenti: sente la pressione degli eventi civili, interpreta le ansie e le difficoltà del momento, tiene vivo il sentimento dell’ascolto, e interpreta l’inquietudine del fare come una riserva di doni e di segnali di fiducia. La pittura aiuta a vivere, a comunicare i propri desideri, a dare visibilità ai propri segreti.
Gastone Mosci
Patrocinio
Università degli Studi di Urbino Carlo Bo
Unilit – Università Libera Itinerante Collegata all’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo