Urbino, 12 marzo 2014: I RACCONTI DI MARIA GRAZIA MAIORINO
Molte volte Maria Grazia Maiorino è venuta a Urbino per presentare i suoi libri presso il Circolo Acli-Centro Universitario o nella Sala Leonardo Castellani.
Innanzitutto opere di poesia come “Viaggio in Carso” (Edizioni del Leone 2000), “Dare la mano a un albero” fotografie di Giovanni Francescon (Belluno 2003), “Di marmo e d’aria” (Manni 2005), “I giardini del mare” (peQuod 2011). l’ultimo notevole lavoro in versi con i disegni di Raimondo Rossi. Poi, un romanzo, “L’azzurro dei giorni scuri” (peQuod 2006), una vicenda comune, una storia di famiglia, che tocca chi vive a contato con il dolore, un diario sofferto, crudele, scritto per amore.
Si segnala, inoltre, una suggestiva plaquette d’artista, “Dialogo tra il merlo e la foglia”, tre racconti brevi di Maria Grazia Maiorino e impaginazione di Piero Piangerelli (Loreto 2010).
Ed ora la Maiorino sottopone ai suoi lettori undici racconti di forte intensità, costruiti con una grande cura per rappresentare la vita di oggi nelle Marche, nelle nostre città, nel campo dei ricordi e negli orizzonti del mare e dell’Appennino. “L’America dei fari” (ed. Gwynplaine 2013) è un mondo ricchissimo, spesso racconto nel racconto, che il quarto di copertina presenta come un “luogo pavesiano” fra desiderio di fuga e nostalgia, narrazione di luoghi magici. In un racconto, “L’harmonium”, si trova sepolto nella scrittura anche Raimondo Rossi che disegna, suona e insegue le sue visioni nella corte d’un’antica abbazia di Castel Durante, fra i reperti di ceramica lucente, nel museo dei sogni e della pietà. A Urbania, l’8 luglio 2013, Maria Sole, il personaggio, Nanni Leonardi, l’attrice, lesse quelle vicende magiche con slancio passionale. Il libro è un evento in sé e una raccolta di storie e invenzioni narrative con un segno di fiducia dell’intelligenza creativa.
Mercoledì 5 marzo la Maiorino ha presentato “L’America dei fari” nella Biblioteca San Giovanni di Pesaro insieme all’editore Orlando Micucci.
IL QUADRO PIU’ BELLO DEL MONDO
(in “L’America dei fari“, 2013, pp. 137-41)
Oggi mia moglie ed io siamo andati a Palazzo Pitti.
La collezione di quadri è la più
interessante che io abbia visto, e non mi sento,
né forse mi sentirò mai in grado di parlare di
uno solo … Ma il quadro più bello del mondo,
ne sono convinto, è la Madonna della Seggiola di Raffaello.
Nathaniel Hawthorne, Diario, 1858
Il sole aveva inondato di luce la stanza, doveva essere febbraio, metà febbraio di quest’anno, tarda mattina, radio spenta, affaccendarsi di uccelli che si tramutava in suono mentre le mie faccende erano mute, solo pensieri e pensieri si aggrovigliavano intorno ai fili del bucato steso sul terrazzo come fosse già primavera. Forse fu la luce arancio che filtrava dalle tende tirate in salotto a spingermi verso le scatole impilate sullo scaffale più basso della libreria, una nota allegramente disordinata per le varie fantasie di carte fiorate e le grandezze diverse, che mi permettevano quasi sempre di ricordarne il contenuto.
O fu proprio una scatola a chiamare, roselline color cipria e avorio su fondo argento, dove avevo conservato le lettere più vecchie che ogni tanto mi proponevo di riguardare per metterle un po’ in ordine, magari buttando via qualche foglio ormai insignificante.
Eccomi dunque seduta sul tappeto del salotto, la scatola aperta sopra il ripiano di cristallo del tavolino e tanto spazio libero intorno dove sparpagliare antichi ricordi.
Quando affondai le mani fra i mucchietti delle lettere trovai il tondo, nascosto e rovesciato, perciò non lo riconobbi subito. Fuori posto, fu la prima cosa che pensai, come ci sarà finito qui dentro? Ma appena lo girai riconobbi con stupore l’immagine sacra che per tanti anni avevo tenuto accanto al letto, insieme ad altre di pittori famosi, tutte sotto gli occhi penetranti di Che Guevara che dominava la mia cameretta da un grande poster in bianco e nero. Invece il tondo era piccolo, senza cornice, una semplice riproduzione fotografica a colori incollata su tavoletta. Istintivamente lo spolverai con un lembo della camicia.
Era la Madonna della Seggiola di Raffaello, unica dea, tra volti maschili di cristi all’ombra onnipresente della croce. Già la guardavo trepidante, in uno stato che presto si sarebbe trasformato in febbrile eccitazione: andare e venire per casa con qualche scusa, un panno, una busta per le cose da buttare, un bicchiere d’acqua. E il tondo veniva con me. E si ingrandiva nella pagina del libro d’arte dedicato a Raffaello che gli aprivo sul tappeto, i pensieri sembravano voci e suonavano dentro e fuori, intrecciavano cerchi, i colori spingevano vorticosamente da qualche parte.
La casa fiorentina era una penombra di stanze, mobili scuri, divani addormentati sotto teli grigi, specchi e quadri alle pareti. Nessuna luce si accendeva all’interno, ma ogni dettaglio scorreva come assorbito da una corrente verso le lunghe finestre affacciate sul piazzale. Da lì Palazzo Pitti ci apparve la prima volta nella luce del tramonto come un intero paesaggio, che si poteva quasi toccare e ancora toccare. Il palazzo non scompariva. Erano salde mura di fortezza ed erano tutte per noi. Abitavano la casa disabitata, sembravano eccessive, impenetrabili, e ciò accresceva l’ansia della visita.
Forse fu merito anche di quell’appartamento, dove eravamo ospiti per caso, la relazione speciale che si stabilì con la Galleria Palatina e con il Giardino di Boboli, il mattino dopo. E in particolare la vaga familiarità che subito mi attirò verso il tondo incorniciato da una fastosa cornice dorata. Si staccava insolitamente dalla parete come uno specchio: così mi sembrò di rivederlo, unico della sala, mentre gli giravo intorno avvolgendolo con lo sguardo, osservando il retro con il desiderio di andare oltre la scena dipinta, per rubarne il segreto, senza più riuscire a formulare parole.
Armonia bellezza meraviglia non bastavano più, tu volevi perderti e raccoglierti e perderti, essere una linea dell’abbraccio, una piega dello scialle, la rotondità di un canto che viene e va, domanda e risponde. Chi sei tu? Quale modella ispirò una Madonna della quiete che tiene il suo bambino fra le braccia a mani giunte come una preghiera? E il san Giovannino é figlio anche lui, dolcemente curioso e assorto, con la croce sottile simile a un giglio stretta a sé – senza nessuno scorcio naturale o architettonico tra le figure a interrompere l’abbraccio, perché l’abbraccio é mondo e tutto il mondo siede intorno a uno scettro da musica, che dirige le onde dei suoni verso l’alto.
Lo chiamavano Maestro, mi racconti, ma sembrava un giovanetto. Era in viaggio verso Roma per lavori nei palazzi del papa con seguito di aiutanti, garzoni, bagagli. Si fermarono nella vostra locanda, tu li servisti ai tavoli e, finita la cena, ti sedesti vicino al camino con i figli piccoli al collo. Il Maestro vi guardava pensieroso, poi si avvicinò e disse che voleva fare un disegno. E lo fece. Il cartone lo srotolò su una panca, lavorò in silenzio dopo aver chiesto il permesso di comporre il quadro, così disse, con qualche piccolo spostamento dei bambini e delle tue braccia. Vi raccomandò di rimanere ben fermi e alla fine vi addormentaste lì, al calore del fuoco. Non vedesti il disegno finito, ripartirono all’alba.
La luce cambiò, raggi più forti penetrarono le tende illuminando le venature del cassettone di noce: una dentro l’altra nicchie a forma di cuore, grotte in un bosco, silenzio e dimenticanza, la casa sembrava isolata in una radura inaccessibile, aveva radici d’aria e nuvole. All’estremità della sua solitudine c’era il desiderio di entrare, forse tutti desideriamo essere parte dei quadri più amati. Sono stata il pastore che guarda di lato nella gemma verde de La tempesta. Sono stata La sposa nel vento in un turbine più inquietante e vicino nel tempo. Diventai la madre e il figlio, la ninnananna mistica dipinta da Raffaello, nata dalla mancanza, nata dallo sprofondamento di curve e velature, finché quello che è nascosto nel fondo fa apparire una guancia, l’accenno di un sorriso, la piega di una manica, la morbidezza …
Tu vuoi sapere del Maestro che pareva un giovanetto … Era un pittore già celebrato al suo tempo, Raffaello di Urbino, una città non molto lontana dalle tue campagne. Quando era piccolo il padre Giovanni Santi, anche lui pittore, prendeva il suo volto a modello per gli angeli. Rimase orfano della madre a soli otto anni, a undici perse anche il padre e lo sostituì nella bottega dove aveva già rivelato il suo miracoloso talento. Ben presto Raffaello fu chiamato a dipingere per chiese e palazzi nelle città più importanti d’Italia, e trascorse gli ultimi dodici anni della sua vita a Roma, alla corte dei papi. Morì giovane, nel mese di aprile, lasciando incompiuta una grande tela dove aveva dipinto la visione di Gesù che si solleva sfolgorante sui drammi terrestri.
Il disegno per cui posasti con i tuoi bambini è diventato uno dei suoi quadri più belli. Ha preso la forma del desco di legno dipinto, che ti portarono carico di doni quando eri ancora sfinita dal parto, e che appendesti sopra il tuo letto. Ti ha vestita di uno scialle di seta verde a frange e preziosi ricami ,come una regina orientale. Ti ha acconciato sul capo il fazzoletto a turbante sciolto come capelli che scoprono il collo. Tu sei diventata Madonna, immagine sacra destinata all’intimità di appartamenti regali e poi esposta al pubblico nei musei. Ovunque porti lo sguardo donato al Maestro nella tua locanda secoli fa. Forse fu un solo istante, un misto di ardire e ritrarsi in amorosa protezione, una serena intesa di occhi fra voi tre e chi vi contempla …
Milioni di occhi si sono posati su di te, mani hanno gareggiato in copie, miniature, incisioni, ognuno ha voluto per sé almeno un modesto souvenir.
Ma io vorrei confidarti qualcos’altro di me, donna di un tempo tanto lontano dal tuo. E’ strano questo salto di cinque secoli, la tentazione del passato è una mela proibita certe volte, lo so, ma ne abbiamo bisogno perché c’è sempre uno spaesamento più doloroso da risarcire, perché vorremmo raccogliere i nostri frammenti.
Comprai la tavoletta quando uscii dal Pitti e la tenni accanto al mio letto di ragazza, da allora sono passati molti anni. Perduti il Cristo di El Greco con la croce in spalla e quello più piccolo di Velasquez, portati da un viaggio in Spagna. Perduto il poster del Che e altri cimeli sfocati nella memoria. Perduta anche tu e ritrovata, o risognata, contadina, nobildonna, chiunque tu sia, nei riflessi azzurro verde giallo rosso arancio le tue vesti si sono allargate fin qui, confuse con le tende, con gli antichi colori dei ricordi. Mi hai catturata come un granello di sabbia nel cerchio perfetto del tuo mandala. Ora possiamo disfarlo al vento insieme alle parole.
Maria Grazia Maiorino