Pino Paioni - Un progetto di vita
Pino Paioni - Un progetto di vita

Urbino, 9 aprile 2014: Pino Paioni. Un progetto di vita

in Lettere e Teatro

Urbino, 9 aprile 2014: Pino Paioni. Un progetto di vita

Pino Paioni - Un progetto di vita

La sindrome di Colbordolo

di Piero Ricci

Quando Paolo Fabbri mi ha invitato a questo appuntamento urbinate, in ricordo di Pino Paioni, stavo leggendo il secondo volume di “Fable mystique” di M. de Certeau, da pochi mesi edito in Francia a cura di Luce Girard, ho pensato di praticare il primo insegnamento di Paioni: questi insisteva sull’idea che leggere fosse un’operazione più civile dello scrivere, nonché essere la lettura una pratica più difficile della scrittura. È così che ho continuato a leggere de Certeau, semmai glossandolo con quanto vi ritrovavo delle mie conversazioni con Paioni: in questo gioco di intertestualità si è anche inserito un altro libro dello storico francese: si tratta de “L’operazione storica”, edito da Argalia nel 1973.

Ringrazio Paolo Fabbri per avermi ricordato l’edizione urbinate del saggio, tra i più importanti della elaborazione teorica del francese. Val la pena sottolineare come il libro urbinate, pubblicato a cura del Centro di Semiotica e Linguistica, sia stato edito prima che, con lo stesso titolo, costituisse il primo saggio di quel monumento storiografico che è Faire l’histoire a cura di Le Goff e Nora. Erano quelli i tempi in cui Urbino – per merito di Greimas, Paioni e Fabbri – anticipava, seppure di pochi mesi, Parigi. E anche questo è stato un insegnamento di Paioni: un intellettuale deve anticipare le mode, non seguirle.

Il rapporto di stima e di rispetto tra lo storico francese e il semiotico urbinate – ma sia per il primo che per il secondo tali categorie disciplinari sono riduttive – è il motivo principale della presenza del primo nelle attività del Centro.

Ambedue resistevano ai tentativi di costringerli entro ambiti disciplinari o concettuali:

lavoravano e pensavano sempre a coté, intrecciando vari saperi (antropologici, linguistici, psicoanalitici, sociologici) nei loro modi di “indefinire” un oggetto, sia esso il discorso mistico o la riflessione semiolinguistica. In ambedue l’oggetto della ricerca era sempre un soggetto; semmai soggetto della produzione testuale, e la scienza che tentava di assumerlo diveniva pertanto una scienza dell’immaginario, ovvero in termini barthesiani, una scienza del particolare, una “patafisica”. E tuttavia per entrambi valeva assai l’approccio narratologico, semmai preso “di sbieco”, sul bordo, sul margine, sulla piega del testo.

Non mi stupiva allora trovare Paioni immerso nei dizionari, soprattutto il Dizionario dei toponimi, semmai alla ricerca di un lemma tipo “Colbordolo”, che faceva del paesino marchigiano il luogo privilegiato da cui guardare Urbino; oppure si incuriosiva di denominazioni quali quella di “Zero”, un paese del trevigiano, oppure di luoghi posti al limite, alla frontiera, tra un mondo e l’altrove, tipo “Finistère”.

Nondimeno de Certeau denunciava la seduzione del “grado zero” come falso problema del discorso storiografico, ma capace di articolare l’una sull’altra, la prassi della ricerca e la scrittura del testo. Per l’uno e per l’altro restava forte il concetto di “soglia”: concepito come luogo dell’enunciazione non solo linguistica ma anche iconica: è la “soglia” che secondo de Certeau conduce dalla confezione dell’oggetto alla costruzione del segno.

Non sorprenderà vedere lo storico del discorso mistico soffermarsi sui giochi linguistici, ora di Silesius, ora di Nicola da Cuma: quest’ultimo fa un uso dialogico del rapporto tra tedesco e latino; transita dall’uno all’altro. È questa dialogicità che produce creazioni lessicali, giochi di parole e di lettere, allitterazioni, omofonie e omografie. È poi quel che ritroviamo nel teorico dell’enunciazione iconica, contemporaneo al Cusano, ovvero negli scritti di G. B. Alberti: non è forse lo studio della geometria prospettica una pagina fondamentale di una teoria della produzione testuale?

Se la “sindrome di Colbordolo” era per Paioni un modo di vedere il mondo, “meglio è stare sulla soglia”, de Certeau insiste come per il Cusano e per altri mistici, l’arte del vedere consisteva nel vedere l’invisibile nel visibile. Da qui l’insistere su di uno spazio che ha la profondità di storie cancellate, uno spazio di strati di immagini visive che giocano l’una sull’altra, tanto che la soglia tra i vari strati non è altro che uno specchio, specchio che già nella pittura del ‘400 viene collocato all’interno del quadro: ora ostensorio, ora reliquiario, capace perciò di mostrare un aldilà. È lo specchio il metatesto esemplare: esso rifrange il significante fino alla moltiplicazione dei nomi propri, del viso proprio, fino a ridurre il soggetto a puro assente. Il compito del nome proprio (antroponimi, toponimi, effigi numismatiche) non è tanto quello di dire, ma quello di “mostrare”, ovvero la deissi è ciò che fa di un codice comunicativo un linguaggio, la sua forza consiste più nel mostrare che nel significare. Ecco il ruolo che nel testo assumono le carte geografiche, le figure e i grafici. Paioni era affascinato dai dizionari illustrati e ipotizzava una storia culturale a partire da ciò che in una lingua, in una società, in una data epoca era illustrabile. Amava le etimologie,soprattutto quelle asteriscate, e aggiungeva che quel che era produttivo non era la diacronia della storia della lingua, ma l’immaginario linguistico, semmai quello inscritto nelle etimologie popolari. Da qui l’interesse che condivideva con de Certeau per la glossolalia, il delirio, le neoformazioni del linguaggio infantile.

De Certeau scriveva che lo studio storico mette in scena il lavoro della memoria, per poi aggiunger che questa, nel selezionare e trasformare esperienze anteriori, per aggiustarle a nuovi usi, deve praticare l’oblio, che solo fa posto ad un presente, e spesso in questa operazione fa tornare sotto forma di “imprevisto” alcune cose che credevamo classificate, archiviate e perciò dimenticate. Paioni diceva che il proprio percorso biografico e intellettuale era scandito da un procedere all’indietro, per cancellare le proprie orme: ancor oggi mi chiedo se l’idea di rimuovere le proprie tracce fosse un modo di praticare l’oblio, oppure questo andare a ritroso come fa la vecchia volpe quando è inseguita dai cani, scommettesse sull’apparire
dell’imprevisto. (Piero Ricci)

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