Valerio Volpini e Gino Montesanto Circolo Acli URBINO
Valerio Volpini e Gino Montesanto Circolo Acli URBINO

15. POST FESTIVAL DIGITALE “VALERIO VOLPINI E LA RESISTENZA” 4 aprile 2014

in Festival Digitale Valerio Volpini e la Resistenza - Fanocittà

15. POST FESTIVAL DIGITALE “VALERIO VOLPINI E LA RESISTENZA”

 

Premio Giornalistico Valerio Volpini

 

1.

PREMIO GIORNALISTICO VALERIO VOLPINI, IX EDIZIONE

PADRE MAURIZIO PATRICIELLO AL CONVEGNO DEL “NUOVO AMICO”
Riflettori puntati sulla “Terra dei Fuochi”

Fano. Si svolgerà mercoledì 9 aprile (ore 10.30) il convegno annuale de “Il Nuovo Amico”. Un appuntamento itinerante sul territorio proprio perché il settimanale rappresenta tre diocesi: Pesaro, Fano e Urbino. Quest’anno ospiti di Fano ed in particolare del liceo scientifico “Torelli”. Saranno presenti oltre 300 studenti più il pubblico cittadino e i collaboratori, per ascoltare Padre Maurizio Patriciello, il parroco anticamorra della diocesi di Aversa (Caserta), la stessa di don Peppe Diana di cui ricorre proprio in questi giorni il ventennale del martirio.
A Padre Maurizio verrà assegnata la IX edizione del Premio giornalistico Valerio Volpini. Lo sentiremo parlare del dramma della sua terra e della sua gente, avvelenata dai rifiuti tossici versati per anni tra le province di Napoli e Caserta all’insaputa della popolazione e con la complicità della camorra e di alcuni intrecci di potere dello Stato. Un problema che in apparenza non ci tocca. Ma allora come mai in questi giorni la redazione del settimanale è stata sommersa da richieste di partecipazione all’appuntamento? Ad un certo punto (purtroppo) abbiamo persino dovuto chiudere le adesioni. Forse perché Padre Maurizio attira le folle con il parlare semplice e diretto del Vangelo. Una voce dirompente che ha saputo portare il dramma della “Terra dei Fuochi” alla ribalta nazionale, attraverso il quotidiano “Avvenire”. Lo premieremo proprio per aver servito gli ideali di giustizia, pace, salvaguardia del creato e dignità della persona umana. Valori inalienabili che dovrebbero rientrare nel dna dell’opinione pubblica attraverso i mezzi di comunicazione e che invece troppo spesso vediamo asserviti a logiche di convenienza.

 

LE PAROLE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

“Sono felicissimo perché c’è l’attenzione da parte di tutti su questo problema”. Così don Maurizio Patriciello, parroco di Caivano, commenta le due lettere del presidente della Repubblica e dei vescovi campani sulla Terra dei fuochi. La prima Giorgio Napolitano l’ha indirizzata proprio a don Patriciello; la seconda, l’hanno resa nota il cardinale Crescenzio Sepe e i vescovi delle diocesi della Terra dei fuochi, facendo loro l’appello del capo dello Stato a “non abbassare la guardia e fare presto”.
“I nostri vescovi – sottolinea don Patriciello – intervengono per la seconda volta, nel giro di un anno, sul problema: vuol dire che la Chiesa campana è molto attenta a questo dramma che ci sta sconvolgendo la vita”. La lettera che gli ha indirizzato Napolitano, poi, gli ha fatto “molto piacere” così come il recente incontro. Per la risoluzione del problema della Terra dei fuochi un altro tassello importante è stato il decreto adottato ai primi di dicembre dal Consiglio dei ministri, anche se sono necessarie delle modifiche. “Abbiamo accolto con riconoscenza il decreto – spiega il parroco -, ma è ancora poca cosa: che diventi reato appiccare il fuoco in campagna è una cosa ottima, visto che fino a poco tempo fa c’era solo una piccola multa da pagare. Ora ci dobbiamo chiedere: chi è che va a bruciare, cosa gli è stato dato e da chi? Di solito, chi brucia sono i rom o i disoccupati, l’ultima ruota del carro. Quindi, bisogna raggiungere chi tiene in mano le fila di questo affare. In campagna si bruciano i rifiuti industriali: dobbiamo capire per quale motivo”. Don Patriciello analizza a fondo la questione: “Quando si tratta di rifiuti campani, sono prodotti in regime di evasione fiscale. Tante fabbrichette di pellami lavorano in nero e gli scarti vengono perciò smaltiti irregolarmente. Andando ad arrestare chi brucia, allora, facciamo una cosa buona, ma non abbiamo risolto il problema”. Il parroco chiede qualcosa in più: “È necessario abbassare le tasse per permettere a queste fabbriche di rimanere sul mercato e lavorare non al nero”.
Infine, “c’è il problema sanitario, perché lo scempio ambientale si traduce in un dramma umanitario. C’è collegamento tra ambiente e salute. Qui, in Campania, non c’è un registro sui tumori, ma non ci si può nascondere dietro il ‘non possiamo dire’. Noi non siamo scienziati, ma viviamo sul territorio, perciò possiamo denunciare il sintomo, ma sono le istituzioni che devono dirci cosa sta avvenendo sulla nostra terra”.

Ma quei dati che non convincono
Don Maurizio Patriciello è perplesso. Solo il 2% dei terreni mappati in 57 comuni della cosiddetta Terra dei fuochi in Campania è da considerare area a sospetto rischio. Almeno stando ai primi dati diffusi dal Governo.
Don Maurizio cosa ne pensa di questi risultati?
Vorremmo capire quali criteri sono stati usati nella scelta dei terreni da controllare. Visto che gli interramenti dei rifiuti sono avvenuti per anni a macchia di leopardo.
Qual è la reazione della gente comune e dei vari comitati?
Ci sentiamo traditi dalle istituzioni. Prima viene varata una legge sulla Terra dei fuochi e ora si diffondono dati contrastanti. Mi sembra ci sia molta disillusione ed esasperazione. Se si continuano a ignorare le richieste del popolo non so fino a quando noi, che rappresentiamo l’ala moderata e disposta a dialogare, saremo in grado di frenare i più giovani, che sentono minacciato il proprio futuro.
Eppure l’alto numero di morti di tumore nelle province di Napoli e Caserta è una prova di una violenza al territorio che si ripercuote sulla salute delle persone…
Purtroppo è sempre stato negato un collegamento scientifico tra i rifiuti tossici interrati nelle nostre zone e l’alta diffusione delle patologie tumorali, che in molti casi ha portato a morti precoci. Speriamo che lo stesso Governo avvii al più presto i controlli sulle condizioni di salute di chi vive nella Terra dei fuochi. E spero tanto che il nostro presidente della Repubblica, che a gennaio mi ha incontrato con 13 mamme che hanno perduto i loro figli per cancro o leucemia e davanti alle quali si è fortemente commosso, possa dire una parola.

Maurizio Carucci (Avvenire)

 

2.

FANO 20 AGOSTO 1944

La strage dei campanili di Fano del 20 agosto 1944 è stata raccontata da molti, in quanto è stato un
fatto bellico unico. L’evento è poi entrato tragicamente nell’immaginario della popolazione fanese perché ci fu una vera distruzione della città. Lo abbiamo ricordato con il racconto dello storico Aldo Deli, allora commissario politico nelle formazioni partigiane fanesi, dal suo bel libro, “I merli di Fano”, a cura di Enzo Uguccioni (Fondazione Cassa di Risparmio di Fano, 2008). Poi, un giovane fanese d’allora, studente a Roma, Leopoldo Elia, amico di Volpini, di Deli e di Arnaldo Battistoni, cinque mesi dopo il passaggio del fronte, ha pubblicato sulla questione un lungo articolo nel quotidiano romano “Il Giornale del Mattino” del 21 gennaio 1945, “Monumenti d’arte travolti dalla guerra. Fano senza campanili”. Se altre testimonianze sono state pubblicate, possiamo riproporle. Ed ecco un ricordo di Valerio Volpini, pubblicato al tempo della sua collaborazione a “Famiglia Cristiana”.

 

RACCONTINO QUASI METAFORICO

di Valerio Volpini

Fano. Nell’estate del ’44 i tedeschi, ormai in lenta ritirata, ordinarono l’evacuazione della mia bellissima città che non era stata toccata dai bombardamenti. I miei concittadini trovarono posto nelle stalle e nelle capanne dei contadini, nelle chiese e nei conventi del contado, ovunque ci fosse un tetto. Quando gli Alleati furono a poca distanza, i tedeschi fecero saltare quasi tutti i campanili, la torre del Palazzo comunale e il maschio della fortezza rinascimentale. Minarono e fecero saltare anche gli incroci delle tre vie centrali. Non si poté mai appurare la ragione di tanto vandalismo. Qualcuno azzardò che potesse essere stato un rancore anticattolico di qualche fuggiasco capetto nazista.
Dissero che era stato un “regalo” al vescovo che aveva offerto la sua disponibilità a rappresentare la città di fronte agli occupanti, mentre questi avevano testardamente insistito per avere come “borgomastro” un laico. Il Comitato di Liberazione Nazionale dalla clandestinità aveva fatto sapere che nessuno doveva prestarsi.
Quando, passato il fronte, ebbe inizio lo sgombero delle macerie, sotto quelle del campanile della basilica intitolata al patrono della città, un santo eremita tratto dal romitaggio per essere nominato pastore, si trovarono i resti dei due genieri tedeschi che avevano fatto brillare le mine distruttrici. Avevano evidentemente sbagliato sui tempi delle micce rimanendo schiacciati dalla distruzione che avevano provocato.
Qualcuno dei cittadini – bestemmiando il santo patrono – disse che il protettore della città aveva voluto far pagare lo scempio. Non considerava che i santi perdonano sempre. Piuttosto può capitare che chi ha fretta di demolire tutto resti travolto.

(da “Famiglia Cristiana” n. 2, 1992)

Valerio Volpini

 

3.

IL SETTANTESIMO DI GIANNETTO DINI

Fano. La delegazione Anpi “Leda Antinori” di Fano ha commemorato, dinanzi alla sua tomba, il martire della Resistenza Giannetto Dini e il suo compagno di lotta, l’urbinate Ferdinando Salvalai. Il 1° aprile 1944 sono stati fucilati a Massalombarda dai fascisti senza alcun processo. Nella cerimonia sono state lette poesie di Paolo Volponi in loro memoria e cantata Bella ciao. Una corona Anpi, vicino a quella arrivata da Massalombarda, è stata deposta a memoria della loro fucilazione avvenuta 70 anni fa.

Memoria di Giannetto Dini

Gli animatori del sito web di Fano Città aderiscono a questo incontro con la consapevolezza spirituale e politica di chi si sente partecipe di questo lutto e della tragedia che ha voluto soffocarne i desideri di libertà e di giustizia senza nulla concedere alla umanità ed al rispetto dei diritti riconosciuti ai combattenti. Il sito www.fanocitta,it ha iniziato il 28 febbraio 2013 i programmi digitali. Per l’occasione del 70° della caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, ha organizzato la trasmissione Festival Digitale “Valerio Volpini e la Resistenza”, a partire dai giovedì 4, 11, e 18 luglio, poi dal 25 al 31 luglio, infine dal venerdì 2, 9 e 16 agosto, ed ora ogni venerdì dal 27 dicembre ad oggi, Per un totale di 28 giornate di riflessioni e di proposte, di testi poetici e narrativi, di documentazioni d’archivio e di immagini. Si è iniziato nel nome di Giannetto Dini con i primi versi della poesia scritta da Valerio Volpini a lui dedicata fin dal tragico evento della fucilazione.
“Ancora chiedo se il tuo sorriso / era la nostra immagine segreta / d’uomini spersi sull’arcobaleno del mondo” A Giannetto Dini fucilato il 1° aprile del 1944. Da “Undici poesie di Valerio Volpini / Undici incisioni di Arnaldo Battistoni” (Fano 1947, 30 esemplari).
Valerio Volpini e Aldo Deli hanno scritto su Giannetto Dini, che conoscevano, in varie occasioni. Viene riproposta per intero la poesia di Volpini per fare memoria della intrepida testimonianza di Giannetto Dini che ha indicato l’itinerario della politica e della democrazia dell’Italia repubblicana. Ed anche per rendere omaggio ad un combattente e ad uno scrittore come Valerio Volpini, che Paolo VI ha chiamato a dirigere “L’Osservatore Romano” (1978-1983).

 

RICORDO

a Giannetto Dini

fucilato il 1 aprile del 1944

Ancora chiedo se il tuo sorriso
era la nostra immagine segreta
d’uomini aperti sull’arcobaleno del mondo.

Crocifiggerci di sguardi biechi
sui crinali fra neve e vento
era l’indicibile agonia e non la festa dei fantasmi
nelle fughe o nel rosso degli scoppi.

Spaziavamo di pensieri ogni parola
che velasse le soglie del nostro “amare”
bruciato senza fiamma
su disperati turibuli di visioni.

Al nostro patire alla sorpresa di trovarci soli
dicevamo quella tremenda voce.

Max Drago Serjosa Giani…
la cantilena dei nomi ritorna
…forse ancora chiediamo
se i tuoi occhi avessero la luce del mondo.

 

Valerio Volpini

 

4.

DON ITALO MANCINI FRA LA SUA GENTE E I SEGNI DELLA RESISTENZA

Urbino. Anche il filosofo don Italo Mancini (1925-1993) entra nella scena di questo festival digitale dedicato a “Valerio Volpini e la Resistenza”, perché erano amici, perché sono stati testimoni di Dio e della convivenza umana, perché maestri di vita e di studi umanistici di tantissimi giovani. Nelle pagine dei 28 programmi digitali sono dunque passati accanto a Valerio Volpini amici e testimoni come Aldo Deli, attento ancora ai nostri lavori pur nella fatica degli anni, Carlo Bo, Leopoldo Elia, Arnaldo Battistoni, Egidio Mengacci, ed ora don Italo Mancini, un insonne filosofo e teologo, molto amato e contrastato nel mondo ecclesiale, un personaggio di primo,piano nella cultura italiana. Per ora facciamo riferimento al suo mondo d’origine, alla sua terra di Schieti nell’urbinate, un luogo di lavoro nella miniera, di lotte sindacali e politiche con uno scenario resistenziale. Partiamo da un libro, straordinario e affascinante e vivissimo, per i suoi segnali spirituali, culturali e di costume. Si tratta di “Tre follie”, legato alla rubrica radiofonica “I giorni” di Rai 1 nell’aprile-giugno 1985, poi edito nel 1986 per iniziativa di Raffaele Crovi presso Camunia Edizioni, la raccolta di 65 conversazioni. Nel decennale della morte di don Mancini, i quaderni del Consiglio Regionale delle Marche (51, Giugno 2003) lo hanno riproposto per iniziativa del Centro socio-culturale “Don Italo Mancini” di Schieti, a cura di Giancarlo Galeazzi. Successivamente sempre a cura di Giancarlo Galeazzi “Tre follie” è stato ristampato da Città Aperta Edizioni nel 2005. “Tre follie” è il “fraterno” testamento di un filosofo, di un pensatore legato alla sua gente, aperto, disponibile all’ascolto. E così il Centro socio-culturale “Don Italo Mancini” di Schieti ha ancora coinvolto il presidente del Consiglio Regionale delle Marche per un altro quaderno (104, Luglio 2011) di Italo Mancini e Ferriero Corbucci, “Gente di Schieti”, un attraversamento esistenziale e civile del paese prossimo ai 70 anni della caduta del fascismo, a cura di Sergio Pretelli e con le pagine amicali di Paolo De Benedetti. (Gastone Mosci).

 

TEOLOGIA DELL’OLOCAUSTO

di Italo Mancini

26 giugno, mercoledì

Considero una delle pagine più belle e fortunate della mia vita l’aver potuto celebrare, per richiesta della famiglia, la messa da requiem nel giorno settimo della morte di Aldo Moro. Mi piace di rileggere oggi con voi alcuni tratti della sobria omelia che ci riporta a uno dei temi più problematici della nostra vita: riferire a Dio sia i nostri successi sia i nostri fallimenti. Un esercizio arduo; perché nel successo incombe la tentazione del poter fare a meno di Dio tanto ci si sente robusti, come querce; e perché nell’insuccesso si può essere catturati dallo spirito di ribellione e di rivolta, che fu la tentazione anche di Giobbe. C’è stato un filosofo (Gyorgy Lukacs) che ha chiamato questi discorsi, teologia del successo (Dio chiamato a garantire i nostri beni e le nostre fortune) e teologia dell’insuccesso quando si è chiamati a giustificare (alla lettera: rendere giusto) Dio per gli scacchi della vita, fino a quello supremo della morte, che Giordano Bruno chiamava “iattura dell’essere”.
Dicevo, dunque, attorniato da una decina di sacerdoti che sentivano come me (tra cui mi piace ricordare padre Davide Turoldo, il cavaliere delle audacie cristiane), in quel 16 maggio 1978, nel punto centrale della mia omelia:

“All’inquietante e doloroso quesito perché il nostro Dio della vita è anche il Dio della morte, la Chiesa risponde con la misteriosa proposta della sostituzione nostra al posto degli altri, detta sostituzione vicaria (alla lettera: fare le veci di… ) e con la risposta del gesto sacrificale. Al di là di ogni valutazione del significato politico ed epocale, che appartiene alla storia, il senso di questa morte occorre chiederlo proprio qui, nell’assumere su di sé la vergogna e la caduta degli altri. Il senso, dunque, sta nella congiunzione con il sacrificio di Cristo in favore dei fratelli. Come in ogni sacrificio, la vittima, sempre la più degna, la più rigorosa, la più disponibile, compie l’espiazione, compie la propiziazione. Quanto c’era e quanto c’è da espiare anche nel mondo della nostra cristianità infedele, stanca, senza impeti evangelici e senza coerenza, soprattutto là, dove si è realizzata la vita politica, Dio ha scelto lui, per essere vittima in sostituzione; perché propri lui, è un mistero insondabile, ma è certo che si è compiuto un gran lavacro, un grande prezzo è stato pagato, c’è nell’aria il sollievo della liberazione dal male. Nel duro carcere del Tegel (Berlino, 1943-44), Dietrich Bonhoeffer ha così ripensato la fine di Mosè e la sua sostituzione vicaria del gesto sacrificale.

Tu che perdoni i peccati e perdoni volentieri,
Dio, questo popolo io l’ho amato.
Aver portato la sua vergogna e i suoi vizi
E aver scorto la sua salvezza: quanto mi basta.
Reggimi, prendimi. Il mio bastone s’incurva,
preparami la tomba, Dio fedele.

“Ma l’atto sacrificale non si esaurisce in questo lavacro dei disfatti, delle inadempienze, dei lassismi: è anche l’alba della germinazione nuova. E’ la propiziazione santa di una nuova profezia. Risvegli giovanili e giovani legami con l’Evangelo puro, volontà di rendere “carnale” e rigoroso l’amore di Cristo, questo, l’alto sacrificio ci deve concedere e ci concederà. Noi siamo avvertiti: c’è stato un aggiornamento di freschezza morale attraverso una quasi sovrumana espiazione delle colpe e c’è un capitale, religioso morale e pubblico, da spendere in modo pulito e senza nessun trionfalismo retorico e farisaico. Con questo atto sacrificale, un enorme passivo è stato saldato, e gli stanchi impeti del movimento cristiano si ritrovano in mano un attivo, e un credito che solo le “compassiones Dei” potevano inventare, anche se nella temibile, tragica forma del segno insanguinato. Un’altra voce per questo nostro discorso sulla speranza ci viene dal popolo: questo popolo capace di discernimento nel riconoscimento di quello che qualifica come puro, innocente, giusto. Avere toccato l’anima popolare è un altro segno dell’altezza del destino. Quello che il popolo sente come suo, lungo l’argine dove scorre la storia sua più vera, nessuno deve o può separare. La storia degli effetti sarà grande. Un ricordo che il popolo legherà imperituro a quello di papa Giovanni”.

Amici, l’uomo è l’eterno mendicante di un senso al suo dolore, e alla sua morte. Talvolta sento di poter essere cristiano, solo per la risposta che il messaggio di Cristo dà al senso della morte e del dolore, inspiegabili o non pensati altrove.

(da “Tre follie“,Camunia, 1986, pp. 187-9)

Italo Mancini

 

 

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