Racconti brevi
di VALERIO VOLPINI
2.
‘LA BATTAGLIA DEL METAURO’ SOTTO UN FICO
I miei conterranei si son fatti, da miti che erano, improvvisamente bellicisti. Nella rocca di Francesco di Giorgio Martini, a Mondavio, hanno organizzato un’esposizione, Bellum, sull’arte della guerra; e a Fano una seconda: La battaglia del Metauro (207 a. C.), l’arte della guerra presso i Romani. In effetti questa battaglia fu una gran cosa: secondo certi storici apocalittici ebbe 50 mila morti e secondo i moderati appena l0 mila.
L’errore però è mio perché non dovevo portare bambini e pargoli a una siffatta mostra. Mi sia d’attenuante l’intenzione di alimentare lo spirito antibellicista. Dell’errore e dell’effetto contrario ho avvertito il rischio allorché, entrando nei saloncini guardati da due austeri guardiani, l’ultimo della mia banda, che ha la fierezza e la costanza degli antichissimi marrucini-peligni, ha cominciato a pestare i piedi urlando che voleva la “pada” (leggi spada, “gladio d’età augustea “). Risolto il problema non senza l’intervento della vigilanza, ho dovuto sventare il tentativo degli altri di staccare dai pannelli lance, giavellotti e frecce. Per fortuna i due guardiani avevano tanto di baffi che, come ognun sa, incutono una certa soggezione nei minori.
Poi è iniziata la lagna di Giaco Mino (detto Faccia) che pretendeva che comprassi i tre modellini di macchine belliche. Il saggio intervento del capo riconosciuto della nipotaglia, Franci, ha spento la richiesta: «Sei proprio stupido. Questa roba non si vende».
Tornata la calma son cominciate le domande. «Perché, nonno, quando ci hai condotto al fiume a cercare le selci non ci hai detto niente della battaglia? Se dicevi del posto dove è avvenuta potevamo trovare qualche spada per Andrea e anche qualche zanna degli elefanti di Asdrubale». Alla meglio ho cercato di spiegare che da cinquecento anni in qua non c’è stata generazione di umanisti e di eruditi che non abbia presentato le proprie ipotesi sui luoghi della battaglia.
E fosse finita qui. Invece, ammaestrati dalla mostra, appena a casa giocarono “alla battaglia del Metauro” stabilendo il loro quartier generale di Romani sotto il fico del giardino, costruendo “baliste” e “onagri” e anche un ariete (aries pensilis) con vecchie sdraie e vecchi tavoli. Io ho dovuto fare Asdrubale e per quanto dicessi che quella non poteva essere la battaglia del Metauro ma un qualsiasi assedio, fecero chiudere persiane e porte per cominciare il bombardamento.
È incredibile come Caterina e Franci siano bravi nella tecnica dell’approvvigionamento. Si presero pure il buon Liev in veste di elefante nonostante le mie proteste perché si stava offendendo la verità storica. Gli elefanti non li avevano i Romani (loro) ma Asdrubale, cioè io.
La battaglia finì quando la Grande Ava chiamò per il rancio comune. «Vi arrendete?», urlarono il feroce marrucino e il Salinatore Franci. «Ci arrendiamo». «E allora venga fuori Asdrubale». Mi avviai al mio destino ma fui machiavellico: «Voglio vedere se qualcuno ha il coraggio di uccidermi». «Ma nonno, si fa per scherzo». «Non mi piace neppure per scherzo; e tu, Franci, che ti ho nominato capo della nipotaglia. . . ››. Un breve consulto dei terribili duci romani: «Va bene, facciamo che Asdrubale rimane vivo». Così, nella mia esperienza sulla battaglia del Metauro, potrò dire che si è trattato d’assedio e che il nemico di Roma, Asdrubale, non morì, e soprattutto potrò aggiungere che il tutto avvenne all’ombra di un fico.
(in “Famiglia Cristiana” 42/1994)
Valerio Volpini