GIACO MINO, “BAMBINO DI PACE”
Si autochiamava: «Io Mamo», mentre da alcune settimane pronuncia chiaramente il nome per intero anche se diviso in due tronconi: «Io Giaco Mino», sottolineandolo con un’intonazione perentoria che sa tanto di prepotenza nonostante i soli due anni e mezzo (dico nonostante, ma spero che sia perché). Per il comportamento, di cui dirò, l’ho chiamato: barbaro o capitan Fracassa, Attila e Nerone e anche più popolarmente ignorantone (termine idiomatico dialettale in uso nelle città costiere dell’Adriatico centrale). Talvolta il titolare faceva sentire la sua protesta vibrata: «No io barbaro, tu barbaro», oppure: «Mamma! Nonno mi ha chiamato ignorantone!».
Giaco Mino – debbo spiegarmi meglio – è un bambino d’assalto e dimostra di esserlo in mille modi. Punta all’attacco veloce e dirompente, ruotando in corsa le mani a graffiare i fratellini maggiori severamente impegnati dall’autorità competente a non accettare, mai, la provocazione.
Da fermo usa mordere dove capita ed è fulmineo ad afferrare per i capelli o spintonare senza riguardi. Da questa guerriglia esclude rigorosamente la sorellina di sei mesi verso la quale tiene un comportamento delicatissimo, fatto persino di baciamani di antico stile.
Pare che al nido dia molto da fare e che addirittura sia il capo di un gruppetto di facinorosi che mettono a soqquadro la classe finendo spesso in castigo. Anche di recente ho avuto prove clamorose della sua arroganza. Ne racconto una soltanto assicurando che purtroppo è vera (cioè non creata dalla mia alta fantasia di scrittore). A tavola s’era fatto un frego di sugo di pomodoro fra naso e fronte, facendovi sbattere un maccherone che non era finito – come doveva – in bocca perché il protagonista nel contempo voleva afferrare un bicchiere e guardare il cane Lev che gli scodin-zolava sotto il seggiolone. Noi ridemmo e lui ci rimbeccò guardandoci corrucciato: «Io non rido! Io non rido!». Al che l’ilarità dell’ampia tavolata familiare fu generale. Giaco Mino s’offese di brutto e replicò aggrottando ancor più la fronte e battendo un gran colpo sul tavolinetto del seggiolone che mise in forse il piatto dei maccheroni. Il nostro ridere si spense di colpo. Accetta stoicamente l’inevitabile raffica di sculacciate, platoniche sculacciate perché la raffica colpisce una parte del corpo ampiamente difesa da una specie di involontario giubbotto antiproiettile fatto indossare ai bambini della sua età per ragioni di tutt’altra natura. E, infatti, la raffica ha un rumore ovattato come quando si batte un materasso.
Eppure, nonostante tutto, Giaco Mino è un “bambino di pace”. Non ha neanche finito di commettere la colpa e di ricevere la punizione che corre in giro invocando la pace: «Famo pace, famo pace!» (quel “famo” non è un’elisione infantile di “facciamo”, ma la dizione dialettale nella dorica città di Ancona e dintorni). La pace non viene concessa subito, ma prima l’autorità enumera una serie di clausole a cominciare dal disarmo. Giaco Mino accetta e sottoscrive tutto correndo a baciare le parti lese, ovvero i fratellini, con commovente tenerezza. Purtroppo gli eventi si ripetono.
Sento gli strilli dei colpiti, la voce severa dell’autorità e, dopo quei tonfi di cui dicevo, l’invocazione piangente: «Famo pace, famo pace!».
(Da “Famiglia cristiana” – 8/1991)
Valerio Volpini