IL VINO DELL’ASTEMIO
Prosa di Fabio Tombari
(Fano 1899-1989)
Il vino del bevitore è schietto, non adacquato. E siccome il bevitore in genere è un intenditore, quel vino è certamente sincero.
Ma il vino dell’astemio è ancor più genuino.
Il bevitore è di bocca buona, purché il vino sia di suo gusto: amabile o asciutto, abboccato od asprigno, il bevitore lo manda giù anche se navigato o tagliato. L’astemio no: esige una purezza, una limpidità maggiore. Così, per quanti aggettivi si possano applicare ai vini, tutti più o meno spumanti, nessuno raggiunge l’elogio cui può arrivare l’astemio.
Tutto si può dire d’un buon vino: che eccita l’appetito, aiuta la digestione, rallegra il cuore, lo riscalda, lo fa cantare.
Ma per quanti attributi e virtù gli si possano attribuire, compresa quella di essere esso stesso un alimento, arrivati al colmo bisogna fermarsi. Così per gli aggettivi elogiativi: generoso, frizzante. solenne, smagliante; gli aggettivi hanno un termine; più su non s’arriva. Si può essere Redi, Carducci, si può esilararsi; o come Baudelaire o Verlaine, ammutolire o impazzire; gli stessi Sufi che la sapevan molto più lunga di quanto noi occidentali sappiamo su loro, raggiungono un massimo, e più in alto non vanno.
L’astemio sì: l’astemio arriva al sublime.
Non ci sono alternative: fra il vino e l’astemio non vi può essere altro rapporto che quello divino. E’ per questo che lo troviamo al centro di tutti i Misteri.
Ma il divino passa per l’umano. Romolo stesso stabilì che non si offrisse altro vino in sacrificio, che quello di vite potata; cioè curata da mano di uomo; poiché è soltanto attraverso l’uomo che la Terra può ascendere.
Ecco perché ancor oggi lo troviamo al massimo dei sacrifici.
Ma non tutto ci è chiaro.
Per solito si dice: in vino veritas. E ci pare di capir molto quando diciamo che il vino fa cantare chi lo beve. Così, per fare parere buono un vino scadente, il venditore offriva finocchio al compratore.
Ma quella è una verità buona per chi la beve, non per chi non beve. Qui si tratta di bere la verità, non di darla a bere.
Il vino, dice Goethe, va bevuto in bei calici e il calice cui allude Goethe, di puro cristallo e istoriato, è quello di Faust; così che Faust vi intravede lo spirito della Terra. Non già che spirito voglia significare alcool, ma è alcool che vuol dire soffio, alito, respiro. L’alcool sta per etere. E il fatto che Goethe o Faust lo possa ammirare in trasparenza, è certamente una gran bella verità. Ma vi è una verità anche maggiore.
Il calice con cui il sacerdote celebra non è trasparente; e se fuori è d’argento, dentro è d’oro. Non è il calice che traspare, ma il vino: non è il calice che lascia vedere il vino, bensì il vino che traspare il calice. E cosa traspare?
L’oro. L’oro è l’espressione terrena della somma sapienza. Si potrebbe riandare al Soma dei Veda, a Melchisedec, ma a noi basta quel che ce ne dice un astemio.
(…)
Fabio Tombari
Anni settanta del Novecento
Abbiamo pubblicato la parte iniziale del testo di Fabio Tombari, che rende attraente e graffiante la sua conversazione con i riferimenti al mito greco, alla storia antica, alla cultura popolare, al cristianesimo, viva d’accenti di virtuosità e d’ironia attraverso la sua poetica della Terra. E chiude così: “Non è più tempo di mezzi vini e di mezze verità. Il vino dev’essere schietto, generoso, sincero”.