Al centro il filosofo Italo Mancini il giurista e storico Carlo Arturo Jemolo
Al centro il filosofo Italo Mancini, il giurista e storico Carlo Arturo Jemolo e il biblista Pietro Rossano, anni settanta in Rai.

23. POST FESTIVAL DIGITALE “VALERIO VOLPINI E LA RESISTENZA” 30 maggio 2014

in Festival Digitale Valerio Volpini e la Resistenza - Fanocittà

23. POST FESTIVAL DIGITALE “VALERIO VOLPINI E LA RESISTENZA”

Il filosofo Italo Mancini

 

LA RESISTENZA COME CATEGORIA

di Italo Mancini

1.Quella di resistenza è una categoria importante; è, inoltre, una categoria necessaria per il fronte delle lotte umane, soprattutto di quelle che intendono alleggerire la terra; è, infine, una categoria pericolosa se non viene accompagnata da opportuno discernimento oppure se viene intesa in modo unilaterale, sganciata ribellisticamente dalle necessarie mediazioni storiche, dove i “quantum” di resistenza debbono sempre fare i conti con i “quantum” di resa e di sottomissione.. Chiarire questi tre aggettivi, “importante”, “necessaria” e “pericolosa” che abbiamo legato al sostantivo resistenza: ecco è proprio questa la linea di sviluppo della breve ricerca.

 

 

Resistenza morale a ogni forma di male

 

2. L’importanza della categoria di resistenza e la sua alta carica morale deriva dal suo legame oppositivo non solo al male politico, cui è legata per nascita e per tradizione, ma anche al male morale, e ogni forma di male. Qui, comunque, com’è abbastanza evidente, la considerazione va tenuta nei termini della vita politica, anche se questi non possono essere scissi dalla vita morale se non per arbitraria astrazione. Contro il ritorno dei mostri sulla terra, qui resistenza significa ancor prima dell’esame delle motivazioni ideali del suo essere, ancor prima dell’esame delle forme che essa può assumere, una cosa molto importante sul piano del realismo storico e dell’efficacia, ossia che queste mostruosità e aberrazioni del potere e degli Stati non sono deterministiche, non appartengono al regno della fatalità e dell’invincibilità, ma sono, anch’esse, come tutto ciò che vive nella storia, vincibili e “resistibili”.

 

 

Il coraggio di lottare

 

Questa presunzione di resistibilità ha un doppio grande valore: ha dapprima il valore di spingere alla partecipazione nella lotta contro il male, al non tirarsi indietro, perché è possibile farcela, e in tal modo la resistibilità diventa una fonte per il coraggio di lottare, vincendo mondi d’inerzia e di fatalismo rassegnato o latitanze pericolose degli stessi organismi pubblici e ecclesiali; ha poi il valore di dar ragione sul versante della resistenza violenta al principio enunciato da Simone Weil che “solo ciò che è efficace ha valore”, con l’avvertenza di dare alla parola efficacia un’estensione capace di toccare anche le rive metastoriche, Nella sua forma della resistibilità, la resistenza ha dunque il senso di efficacia, efficacia della lotta contro le incarnazioni del male; e in ciò sta il suo alto valore formativo.

 

 

Nel segno della Weil e di Brecht

 

Di cose analoghe ha fatto cenno Bertolt Brecht nel suo lavoro drammatico e didascalico del 1941, quando era esiliato in Finlandia, e che porta il titolo molto espressivo di “La resistibile ascesa di Arturo Ui “. Il signor Ui è un gangster americano la cui ascesa criminosa è resa possibile dalla corruzione delle autorità e dal disinteresse e omertà della gente. Ma in realtà il signor Ui è la copertura letteraria di un fenomeno di ben altra portata pubblica, dico del fenomeno dell’ascesa e del potere di Hitler, che le teologie più sensibili degli anni trenta hanno identificato nella situazione di Apocalisse 13, ossia con il trionfo della bestia; ascesa al potere, anch’essa resa possibile da una criminosa responsabilità del popolo dominato dal puro aspetto obbedienziale dell’etica, quella che Bonhoeffer in quegli stessi anni chiamava “stupidità” (Dummheit) e che in seguito Elias Canetti identificherà con la sopravvivenza che è un aspetto tipico della vita del capo che vive “sopra” la gente, resa massa nei molteplici aspetti, sempre negativi, che il fenomeno può assumere e che il Nobel austriaco ha analizzato per oltre trent’anni consegnando poi i suoi risultati allo recente scritto “Massa e potere”.

 

 

La resistibile ascesa di Arturo Ui

 

Attraverso l’accompagnamento didascalico della vita del signor Ui, Brecht dimostra che neppure l’ascesa di Hitler, le cui tappe vengono riferite con richiami storici alle tappe d’ascesa del gangster, era un’ascesa irresistibile tanto è vero che i popoli “hanno vinto” il mostro, quando si sono riscossi. Ma la vittoria non è definitiva e la resistenza non è finita. Il ventre che ha dato alla luce quel mostro è ancora gravido, e può partorirne, come ne ha partorito, altri. La lezione di Brecht è allora doppia: la resistibilità di queste ascese impone il dovere della resistenza; la pregnanza inesausta di quel ventre, a motivo delle nostre culture e delle nostre morali scellerate, chiede ora e sempre resistenza, secondo il motto generoso se pur non poco spontaneistico dei giovani contestatori del ’77.
Prima di chiudere su questo punto possiamo leggere il suggestivo commiato del lavoro di Brecht.

 

E voi, imparate che occorre vedere
e non guardare in aria; occorre agire
e non parlare. Questo mostro stava
una volta, per governare il mondo!
I popoli lo spensero, ma ora
non cantiamo vittoria troppo presto:
il grembo da cui nacque è ancora fecondo.

 

 

Il diritto di resistere

 

3.Detta in qualche modo così l’importanza della resistenza, si può affrontare ora la questione della sua necessità, ossia un suo essere un “quid justum”, il suo configurarsi come diritto e norma. Il tema è conosciuto come “diritto di resistenza”.
Esiste, dunque, e in quali forme e a quali condizioni un “diritto di resistenza”? La felice espressione, e dovrebbe essere noto, risale a John Locke; nel secondo dei “Due trattati sul governo” egli la crea, l’approva e la erge contro la degenerazione e il corrompimento dei governi parlamentari.
Convinto che le leggi non sono sempre giuste solo perché ci sono (e tale era la tesi di Hobbes che vi fondava il suo assolutismo e la riteneva conseguenza della rigorosa estraneazione delle singole volontà nel contratto, onde la perentoria conclusione del “justum quia jussum” e la inammissibilità della resistenza),e interprete in modo storico e non categoriale, ossia al riparo di ogni smentita empirica, del contratto onde nasce lo Stato, John Locke sostiene due forme nel diritto di resistenza: una di natura non violenta e che, nella memoria biblica, chiama “appello al cielo”, ossia il riprendersi la propria autonomia di fronte al contratto tralignato nello Stato ingiusto, mettendo in moto i meccanismi della rifondazione: e l’altra che vien fatta consistere nella vera e propria sollevazione del popolo, soprattutto quando non è solo l’esecutivo, ma lo stesso potere legislativo che traligna.

 

 

Con Spinoza contro lo Stato che non rispetta i diritti individuali

 

Si direbbe che Spinoza non ammetta un diritto di resistenza per la cogenza di una concezione dello Stato inteso come naturale prolungamento del “conatus” a vivere e durare che è proprio del suo senso dell’essere; eppure mette in moto tali e tante condizioni limitative al realizzarsi specifico e razionale dello Stato da renderlo in concreto sostenitore di questa teoria. Intanto egli sottrae alla competenza e al dominio dello Stato tutto quanto non appartiene alla categoria dell’utile, come il mondo dei pensieri, le convinzioni di fede, e, soprattutto, il libero filosofare (“libertas philosophandi”): uno Stato che violasse questi domini inviolabilmente propri dell’individuo si pone come realtà ingiusta che va combattuta e resistita. In secondo luogo, egli chiede dallo Stato il rispetto della naturale destinazione umana perché come non si può esigere che un tavolo canti così nessuno può esigere dall’uomo cose contrarie alla sua natura e alle sue facoltà. Bisogna resistere a uno Strato che chiedesse questo. Infine, uno Stato deve essere abbattuto quando è accompagnato da un grande “otium plebis” e suscita sdegno universale.

 

 

Da Kant a Hegel: spazi al diritto di responsabilità

 

Singolare, invece, è la posizione di Kant: contro Hobbes, un suo preciso bersaglio polemico, egli ammette la possibilità delle leggi ingiuste, ma le vuole ugualmente obbedite, e al riparo da ogni forma di resistenza, perché il “bonum” rappresentato dallo Stato è troppo grande e vitale, un vero a priori della vita pubblica associata, perché non gli si debba sacrificare il bene particolare e individuale che certamente soffre iattura quando si tratta di obbedire a una legge ingiusta. Nel conflitto tra bene pubblico e vita privata la scelta di Kant è categorica, proprio nel rispetto della categoria; eppure anch’egli riconosce spazi al diritto di resistenza, prima di tutto conferendo valore “storico” a fenomeni come la rivoluzione francese e allo stesso assassinio di Luigi XVI, che invece risulterebbe “scelus inexpliable” se fosse detto e proposto al livello di teoria e di categoria come compito normativo; e in secondo luogo, rivendicando il “diritto di pena”, ossia di libera discussione e critica attraverso il dibattito delle idee e la circolazione degli scritti che sta alla base del successo della rivoluzione francese, nata, come ha scritto Hegel, nel cervello dei filosofi e diffusa tra la gente attraverso quei generi letterari aperti che furono propri dei “philosophes”

Non tocco a questo punto, come pur si dovrebbe, le questioni strettamente giuridiche del diritto di resistenza, perché a questo livello sembra che la questione sia contraddittoria “in terminis”, infatti qui si tratterebbe di dare vita e forma a un diritto che legittimi la sua soppressione proprio in quanto diritto valido e certo. La letteratura giuridica più recente sta discutendo questo argomento. A noi premevano ora le motivazioni morali e politiche della cosa. La questione strettamente giuridica trapassa in quella politica della rivoluzione, che è e si pone come fatto metagiuridico, da filosofia (e teologia) della storia.

 

 

Il teologo Dietrich Bonhoeffer
Resistenza con discernimenti e mediazioni: Bonhoeffer

 

4.La categoria della resistenza risulta altamente pericolosa se non è accompagnata da discernimenti e da mediazioni che la leghino strettamente alla responsabilità e alla fedeltà. Esemplare, da questo punto di vista, mi sembra il fatto che le lettere dal carcere, i documenti del tempo della fine, le schegge teologiche dei campi di concentramento lasciati da Dietrich Bonhoeffer siano stati pubblicati con il titolo, che bene indica la consapevolezza di questo problema, di “Resistenza e resa” (“Widerstand und Ergebung”).

Presi separatamente, e quindi assolutizzati, i due termino, o, meglio, i due modi di vita sono impossibili. Provate a vivere con la sola resa, con quel mancare di camminare eretti, fieri della propria libertà, con cui Kant esprime la dignità dell’uomo! Polemizzando con Schleiermacher che aveva posto il segno distintivo della pietà e della vera religione nel “sentimento della dipendenza”, Hegel ebbe facile strada aò sarcasmo quando ribatté che da questo punto di vista il cane risultava il miglior cristiano, possedendo la fedeltà in sommo grado. Indagando nello scritto del 1943, “Dieci anni dopo” (l’avventura del nazismo al potere), le cause che hanno portato l’intero popolo tedesco a inginocchiarsi davanti al Fuhrer, Bonhoeffer ha giustamente fatto osservare che tutto è dipeso dalla scissione della resa a ogni forma di resistenza; dal prevalere di quella che Max Weber ha chiamato “etica della convinzione” al posto della “etica della responsabilità”; dell’aver identificato ogni scelta con l’obbedienza al comando; dalla ancestrale formazione scesa da Lutero di considerare separato, assoluto, fuori discussione il potere dello Stato, come potere della spada e della coercizione. Tanto la vita spirituale va da sé. E’ autonoma nel “sola fides”. Se volessimo far uso di una cifra letteraria dovremmo dire che qui trionfa Sancio Pancia in modo radicale. Sancio Pancia è l’obbedienza senza nessuna autonomia del discernimento, quella che giustamente a don Milani sembrava non essere una virtù.

 

 

Né obbedienza assoluta né il ribellarsi allo stato puro

 

Eppure anche l’altro lato della scelta, ribellarsi e basta, non è vivibile. Qui la cifra letteraria è don Chisciotte. Un personaggio pieno di passione e molto serio come aspetto della vita, ma praticamente insipiente e inefficace. La nostra cultura conosce casi di ribelli allo stato puro. Sade, per esempio, Nietzsche, per esempio, Ivan Karamazov, per esempio. E sempre le loro terrificanti rotture con il normale, le loro radicali interruzioni del discorso logico e tradizionale in Occidente sono state pagate al prezzo della follia, a quella febbre cerebrale, che spezzò la giovinezza di Ivan. Una follia in senso categoriale e non biografico, perché il tendere sempre e violentemente all’essere altro e totalmente altro, non può non identificarsi con l’essere altri in senso personale, che è la schizofrenia.

Condannare queste alternative è ancora facile: la loro eccessività è chiara. Difficile è invece dire della loro convivenza. Fino a che punto piegarsi, fino a che punto resistere? Resistenza e resa, ordine e inadempimento sono entrambi valori, ma di segno opposto. Come conciliarli nel concreto atto vitale e storico? Si tratta soltanto di un discernimento empirico, caso per caso, oppure si danno leggi generali? La cosa si complica per il fatto che non c’è resistenza senza un “quantum” di violenza. Come allora conciliare la violenza con l’amore che è la legge di vita e di fede cristiana? Quando Bonhoeffer dovette decidere se partecipare alla congiura per uccidere Hitler penò e soffrì non poco in quel luglio di quarant’anni fa, gli costò notti di preghiera e riflessioni senza fine. Poi decise per il sì; l’uccisione del tiranno poteva essere consentita. Dello stesso parere fu il vescovo cattolico di Berlino.

 

 

Tentare cose grandi fra fede e etica della responsabilità

 

Una lettera di Bonhoeffer dal carcere, che lega i nostri interrogativi con embrioni di soluzione dal punto di vista cristiano può essere messa qui come una specie di conclusione problematica o conclusione aperta. La lettera è del 12 febbraio 1944, poso più di un anno prima della morte. Dice:

“Spesso ho pensato a dove passino i confini tra la necessaria resistenza alla “sorte” e l’altrettanto necessaria resa. Don Chisciotte è il simbolo della persecuzione della resistenza fino all’assurdo, anzi alla follia, come Michael Kohlhaus, che diventa colpevole a furia di esigere i suoi diritti. Per ambedue la resistenza perde il suo senso reale e si condanna alle fantasticherie della teoria. Sancio Panza è l’espressione dell’adattarsi alle circostanze, senza problemi, con furberia. Io credo che dobbiamo veramente tentare cose grandi e appropriate, e compiere al tempo stesso ciò che è chiaramente e generalmente necessario: dobbiamo porci altrettanto decisamente al “destino” – trovo importante usare il neutro per questo termine – quanto a sottoporci a lui a tempo opportuno. Di una “guida” si può parlare soltanto al di là di questo doppio avvertimento, Dio non ci più incontro col “tu”, ma “ammutolisce” nel neutro “esso”; il mio problema è in fondo quello di sapere come possiamo trovare il “tu” in codesto “esso” (“destino”) o, con altre parole, di sapere come dal “destino” nasca veramente la “guida”. Non è possibile dunque definire in linea di principio i confini di resistenza e resa, ma è certo che devono essere presenti ambedue e ambedue devono venire assunte com decisione. La fede richiede questo atteggiamento mobile, vivo”.

Italo Mancini