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Urbino

IL NAVIGANTE: PRIMO ALBUM DEL CANTAUTORE URBINATE ANDREA FRANCHI

in Musica

di Paolo Ninfali

Il cantautore Andrea Franchi ha recentemente pubblicato con Blueberry studio, il suo primo CD, intitolato il Navigante. L’Album contiene nove bellissime canzoni, scritte e musicate da Andrea, eseguite insieme ai musicisti: Alex Gorbi al contrabbasso; Francesco di Cristofaro, bansuri e fisarmonica; Marcello Branca, fisarmonica; Domenico Candellori e Christian Marini, percussioni e batteria; Jacopo Mariotti, violoncello; Giuseppe Conte, basso e chitarra elettrica; Simone Migani, pianoforte; Massimo Valentini al Sax.

Le musiche sono coinvolgenti per il ritmo e il contributo intelligente e calibrato dei vari strumenti che rafforzano in modo significativo le emozioni comunicate dai testi. Tranne “Voci dal Mediterraneo” che è solo strumentale, gli altri brani presentano testi allegorici della vita nei suoi aspetti cruciali: la fede (L’attesa); il coraggio, il timore dell’ignoto ( il Navigante, Babilonia,

la Fortuna); l’amore e il sogno (Cieli lontani, don Chisciotte); l’insicurezza sociale creata da violenza e potere (La danza dei dannati).

Con garbo e delicatezza, i testi ti emozionano, quanto più li ascolti, proprio perché non sono espliciti, e ti invitano a capire e a pensare. Se ascoltati nella calma di un ambiente familiare, passano nel profondo, così che le emozioni affiorano e ti portano ad apprezzare le cose che contano veramente.

In sintesi, sono canzoni da ascoltare e riascoltare, perché ogni volta fanno scattare emozioni nuove, condizionate dal momento presente, che si sta vivendo. Un album veramente bello e pregevole per chi cerca un arricchimento emozionale fuori dal frastuono degli impegni che ogni giorno ci toccano.

 

Ho incontrato Andrea Franchi alla Pieve di Castel Cavallino, mentre stava girando il video di un brano musicale con testo in greco antico (Seikilos, reperibile su youtube) e musica realizzata in collaborazione con Gionni di Clemente, altro bravissimo musicista. In quella occasione ho posto ad Andrea Franchi alcune domande sul CD il Navigante. Ecco di seguito le sue risposte.

1) Ciò che colpisce ne “Il Navigante” è la varietà dei ritmi musicali che si alternano creando atmosfere magiche. Come nasce e si sviluppa la ricerca musicale dei tuoi brani

  • La nascita delle canzoni è influenzata dalla musica che si ascolta, nel mio caso molto folk irlandese, greco, cantautori italiani e internazionali. Solitamente scrivo prima la musica e poi il testo. Nel brano “Il Navigante” ad esempio, tutto è partito da un giro, un riff, di chitarra acustica che si ripete dall’inizio alla fine. Si parte con poco, un atomo di emozione e lo si sviluppa 

2) Il testo di “Babilonia” mette a confronto la fragilità umana (siamo nati da una goccia…) con l’ambizione sfrenata di un mondo che corre all’impazzata. Quando lo hai composto e quali sono stati gli elementi ispiratori del brano?

  • Sì esattamente, l’uomo che sa di non avere in mano alcuna verità assoluta deve affrontare il mistero della sua esistenza gettata in un mondo ormai dominato dalla tecnica. Un motore che è sempre all’opera, avanza e ci trascina. A volte ho la sensazione che stiamo andando alla deriva e che “la terra tremi davanti al niente”. Forse a quel punto la tecnica avrà già trovato la soluzione per spostarsi e vivere su un altro pianeta, o forse no: in ogni caso, noi non ci saremo, come dice Guccini. Resta la preoccupazione per le generazioni future. La canzone è nata mentre suonavo dal vivo, ho improvvisato un canto su un semplice giro di due – tre accordi. Si basava essenzialmente sul ritmo. Poi, esibizione dopo esibizione ho affinato il testo. Ora, riascoltandolo, devo dire che qualche parola la modificherei. Non si finirebbe mai di perfezionare le canzoni…per fortuna, ad un certo punto, vengono pubblicate e si chiude, si passa ad altro 

3) Nella “Danza dei dannati” affronti un tema sociale. E’ una denuncia, senza moralismi, che invita a sapersi guardare attorno. Lo hai rivolto ai giovani in particolare o a chi pensavi quando lo hai scritto?

  • Non ho pensato a qualcuno in particolare. Erano immagini che avevo e mi ronzavano in testa. Nessuno esce bene da questo racconto: anche le vittime, dopo una vita di soprusi, hanno le stesse ambizioni dei carnefici. Se ne avessero la possibilità si comporterebbero come loro. E lo fanno, frustrati, all’interno dei limitati nuclei famigliari

4) Nei tuoi testi come “ Don Chisciotte” e “Cieli lontani” c’è un invito a lasciarsi cullare da sogni e ricordi. Li componi per puro spirito romantico o c’è un ripensare a te stesso e all’oggi che viviamo?

  • Non tendo facilmente al romanticismo ma può essere che sia così, almeno per questi due brani. In effetti “Cieli lontani” è la prima canzone che ho scritto e il periodo era quello post adolescenziale. Sono due canzoni che hanno a che fare con il concetto di realtà: in una si cerca il suo superamento in favore di una dimensione idealizzata e sognata, sorprendente, dai contorni indefiniti e mai visti, nell’altra (Don Chisciotte) si vuole evidenziare che una vita può essere vissuta autenticamente a prescindere dalla veridicità dei presupposti che l’hanno formata e guidata. Portando il ragionamento al suo limite estremo si può dire che è autentica anche la vita del folle e quella vissuta nella dimensione del sogno

5) Tornando alle musiche, si nota una pregevole integrazione strumentale. Come sei riuscito a legare il gruppo e a collaborare con molti musicisti in modo così felice?

  • Mi piace collaborare con altri musicisti perché la musica, invece di percorrere una strada dritta che sai già dove va a finire, viene portata in territori nuovi e tu dici “caspita, bello questo posto!”. Ci hanno aggiunto liberamente del loro e i brani hanno assunto via via nuova forma e colore. Alcuni incontri sono stati particolarmente fortunati e ho avuto la sensazione che il musicista sia riuscito ad entrare dentro la canzone, a coglierne l’essenza, meglio di me.

Ricordo di Mario Logli: Pensare Urbino

in Cultura
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    Portami via, Mario Logli
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Pensare Urbino con Mario Logli

di Gastone Mosci

Carlo Bo diceva spesso a conclusione di alcune riflessioni sulla città: visitate Urbino per capire la città e il suo mondo; Paolo Volponi invece chiedeva di venire a Urbino per incontrare la bellezza del paesaggio e il Rinascimento; Mario Logli (1933-2020), che era amico dei due grandi scrittori, ha invece usato la sua arte per fare un dono: rappresentare Urbino e il suo Palazzo Ducale, come simbolo della pace e dell’armonia. E per anni e anni ha raccontato Urbino, la realtà delle sue architetture e la sua verità di sogno, la vita della città, la sua terrestrità, la sua spiritualità: Urbino luogo di pace, Urbino visione dell’armonia. Non più la “città del silenzio” ma del teatro permanente nella nostra modernità.

Guardo questo spettacolo con gli occhi stupiti di lettore e di visitatore di immagini luminose, che sono tutti documenti della vita e dell’epoca nuova che stiamo vivendo, della storia de “l’uomo che passa”, per usare l’espressione di Leonardo Castellani, attento a tutte le circostanze della cultura.

Vorrei segnalare il rapporto creatosi fra l’artista e la città attraverso il legame con la Scuola del Libro: all’inizio della sua formazione si ripete per lui una vicenda che aveva visto protagonista – anni trenta del ‘900 – Pietro Sanchini e Francesco Carnevali, un ragazzo contadino che lavorava nella falegnameria nel torrione del teatro Sanzio, notato dal direttore che lo porta alla Scuola del Libro con una borsa di studio, vita nuova. Sanchini nell’immediato secondo dopoguerra – anni quaranta – incontra un ragazzo, svogliato e distratto da eventi cruciali, che non sa studiare: lo capisce e lo accompagna ogni giorno nelle aule della Scuola del Libro. Era la vita nuova di Mario Logli.

In una città dell’arte e delle luci della bellezza possono accadere miracoli di intelligenza umana e di solidarietà che segnano una vita. Nell’arco della sua esistenza, dedicata al disegno e alla illustrazione, il direttore del Palazzo Ducale, Peter Aufreiter, lo ha chiamato a tenere una sua mostra a Urbino, Senigallia e Gradara in contemporanea: allestimento e svolgimento in grande sintonia con il territorio. Nell’itinerario “tra memoria e mito” (Leardini 2017) del Palazzo Ducale, i duchi si ritrovavano in una allegoria di luci e di racconti, con “Gli invasori”, “In forma di gioco”, “Architetture dell’anima” e “Isole volanti”; con l’omaggio a Mario Giacomelli e le vedute fra città e mare Adriatico, continuava lo spettacolo di Senigallia alla Rocca roveresca: immagini di grande di grande fascino, di giochi li luce e di cromatismo. Nella rocca di Gradara fra le opere pittoriche vi erano altre Isole volanti di forte espressività in gioco di rapporti fra il paesaggio piatto verso Rimini e le colline che muovono le luci del San Bartolo. Anche Philippe Daverio, nel Catalogo della Mostra, ripropone, quale elemento fondannte, il paesaggio urbinate ed entra nel contesto milanese creativo e diversificato della rete dei marchigiani tra modernità e sperimentazione: Logli insieme a Walter Valentini, Tullio Pericoli con l’idea delle mappe paesaggiste e delle magie, Michele Provinciali artefice della grafica dell’Isia, il richiamo alle pitture di Osvaldo Licini.

Mario Logli ha portato nell’ambiente editoriale e teatrale milanese (1955- 2007) l’amore per il disegno e l’illustrazione insieme al segno ideale della bellezza coltivata da Piero della Francesca, Laurana, Raffaello, e della “città perfetta” (Stefano Bucci), quasi una quotidianità che portava nel suo volto cordiale.

 

 

URBIN – OMAGG’ MA MARIO LOGLI (19-07-2001)

L’ho vista a l’improvis dietra la svolta
d’un sogn, fors…Scivolava pian tel pel
dl’acqua…Se rispechiava capovolta
com ‘n’isola, com t’un mond paralel…

Me par d’avella arvista ‘n’antra volta,
forsa tra l’imbra e l’ambra, in mezza al ciel,
sospesa malasό… Viagiava arcolta
com dentra ‘n’astronav. S’gonfiava el vel

dle nuvle sotta… Sensa pes pian pian
volava sa’l palass i toricin
el campanil la cuppola la mura…

Mentre volava sempre piό lontan
quand era ormai poc piό d’un punt pcin pcin…
sapev d’avé trovat la quadratura

Rosanna Gambarara

 

Urbino, Leggere la Poesia / Leggere i poeti IV

in Lettere e Teatro
Urbino
Urbino

Urbino, Leggere la Poesia / Leggere i poeti

Rosanna Gambarara

Dice Rosanna Gambarara: Sono nata a Urbino. A Urbino ho studiato, mi sono laureata in lettere classiche ed ho insegnato qualche anno, prima di trasferirmi a Roma, dove attualmente vivo, e dove ho continuato ad insegnare. A seconda dei momenti e delle esigenze espressive e formali scrivo poesia in lingua e in dialetto di Urbino, in versi sciolti o nella forma metrico-ritmica del sonetto. Adoro Schubert e non solo. Canto gioiosamente nel coro “Jubilate Deo” e “Musica insieme”.

Seguono alcuni interventi: Nota di apertura della manifestazione di Gastone Mosci e Dialogo-intervista fra Rosanna Gambarara e Germana Duca.

Rosanna Gambarara e la sua nuova poesia

di Gastone Mosci

Il debutto di Rosanna Gambarara nella poesia è una sorpresa. Si è affacciata due anni fa nel mondo letterario urbinate con curiosità e cautela, parlando della sua passione per il dialetto di Urbino, ravvivata dalla  lontananza romana. Ha preso contatti con gli urbinati, ha parlato con Maria Lenti, Alberto Calavalle, Fabio M. Serpilli, Mario Narducci, Silvia Cuppini. Si è messa in rete con il fervore della poesia libera e spontanea. E a fine 2016 ha mostrato il suo libro pubblicato nelle edizioni romane di Pagine con il titolo “Hysteron Proteron”, che gioca sulla inaffidabilità del tempo. E canta anche in due cori romani famosi.

Nella terza sezione del libro, le poesie in dialetto sono precedute dalla traduzione, in apertura del testo ci sono le poesie in lingua più recenti, la seconda sezione presenta le poesie più antiche. Negli ultimi due anni ha fatto sentire la sua voce poetica – perché di vera poesia si tratta – ed anche il suo spirito urbinate autentico e rinnovato – perché si tratta di neodialetto.

L’incontro di oggi è segnato dal desiderio di comunicare, di conoscersi meglio e di incontrare testimoni di esperienze culturali e di cittadinanza sociale. Rosanna canta in due cori romani, Jubilate Deo eMusica insieme, è spesso in viaggio, ha ripreso il tragitto Roma-Urbino. Si è affidata alla Libera Università Urbinate Carlo Bo, l’Unilit, per aprire una finestra nuova nel panorama letterario attuale. Questa nota è una semplice introduzione, un avvio del dialogo che ci accompagna nel 2018. “Leggere la poesia / Leggere i poeti”: bisogna guardare la gente e il mondo, far uso degli occhi e amare la vita.

La prima sezione della silloge porta il titoloDivagazioni, il titoletto di ogni pagina invece indicaApprodi,vale a dire occasioni e richiami, Montale e Volponi. Cominciamo bene: i poeti ma anche il fascino di Wisuawe Szymborska,Nobel 1990, poesia della saggezza, chi ti guarda, chi ti ascolta, canta e dunque chi prega. Qui troviamo il mistero della musica che si accompagna alla poesiaLa voce delle piccole cose: un canto silenzioso, appena un fruscio, le gemme delle piante, l’uccellino, la piccola goccia.

Rosanna Gambarara ci porta in un mondo poetico nuovo, una nuova poesia (più avanti un neodialetto).La voce delle piccole cose è il luogo della gioia, del vivere insieme. E’ una poesia intensa.

Bisogna avere paura? Altra poesia,La paura c’è, è “nascosta / non si scorda di te”. E’ un sentire improvviso, ti assedia dove ti trovi, ma non è determinante. La paura è la condizione dell’insicurezza? No, il valore sta nelle piccole cose, nella gioia.

La poesiaLettera 22 è favolosa: è il luogo del lavoro, provoca il  sentimento della vita.

L’attesa  è l’altro grande tema di questi “Approdi”, luoghi decisivi. E’ un canto con diverse tonalità… “Non c’è attimo senza attesa / anche quando il cuore riposa / c’è l’attesa di qualcosa”. Sì, forse la quotidianità è un altro valore: come essere se stessi, segretamente con l’aiuto di chi ti assiste. Oppure l’attesa è un sogno  permanente? No!  “L’attesa di una nuova innocenza / di una utopia.”

In questo itinerario dinuova innocenza segue “Il silenzio”, altro  canto di luogo nuovo, non di stagione nuova, ma di sentimento: ecco il racconto del silenzio: “Non lo senti”, “Il silenzio non è”.  “(…) il sospiro delle galassie più remote”. Ecco il silenzio è un aiuto, un luogo dello spirito, come “capire le sillabe del segreto / nell’inquieto respiro / del mare”. Ad ogni affermazione l’attimo del silenzio trova un segreto lontano, dove ogni piccola cosa esiste ed ha un valore.

“Il silenzio non è essenza. / E’ il luogo in cui il pensiero ricama / la trama / delle sue verità”. Inoltre, in ogni poesia c’è una chiusura musicale o un gesto di adesione ritmica: “L’immensa dimensione vuota in cui si perde e annega l’ultima nota”.

Leggo ora Sguardo (p. 15), una poesia complessa e inebriante. “Che vedi?”  il muro, la pittura, l’ambiente, i pensieri, i luoghi, le caviglie del flamenco, il pomodoro con quanto segue: un volto; la dimensione umana: la fuga, la guerra, il lamento. Sembra il correre con una macchina fotografica

Il ritmo è spigoloso: mi sembra di leggere la poesia di Mairizio Cucchi sul settimanaleOrigami: Cucchi coglie la quotidianità visibile, sperimentale,  Rosanna pone sussulti e “divagazioni”, “approdi”, emozioni.

L’aforisma di Menandro,Chi gli dei amano muoregiovane(p.18), è anche titolo di una poesia e motivo di  ribellioni. “Sulla spalletta del cavalcavia”, una fotografia, dolore, un  attimo, vagabondaggio, le rughe del vivere. Un passo falso. Non mi consola il pensiero di Menandro né il cataclisma della galassia…

Gastone Mosci

Dialogo-intervista fra Rosanna Gambarara e Germana Duca

1) GD – Il viaggio attraverso l’opera prima poetica di Rosanna Gambarara è pieno di sorprese, ricco di argomenti e suggestioni. Un ‘viaggio tutto compreso’ – verrebbe da dire – trattandosi di un tour organizzato intorno alla vita. Un percorso di circa novanta pagine; in tre tappe, denominate “Divagazioni”, “In filigrana”e, per finire, “Hysteron Proteron”, da cui proviene il titolo.

Anche chi non sa di greco, grazie a una nota dell’autrice, apprende che i testi qui raccolti seguono un ordine cronologico inverso rispetto alle date di composizione: le poesie in lingua, elaborate negli ultimi anni, precedono i ventuno sonetti in dialetto urbinate, scritti per primi. Questi, a loro volta, sono preceduti dalla versione italiana, che normalmente si pone dopo. Un procedimento originale, che sembra contraddire il concetto di tempo progressivo, producendo curiosità in chi legge.

A riguardo, è possibile sapere com’è maturata in te questa scelta? Essa ha qualche relazione con le parole di Sant’Agostino, poste sulla soglia del libro?

RG – Le parole di Sant’Agostino sono più che mai attuali oggi che la fisica quantistica ci dice che il tempo come noi lo concepiamo non esiste, che la percezione che noi abbiamo del suo fluire dipende dalla nostra”miopia”, come dice Carlo Rovelli,  dalla nostra visione sfocata del mondo, che non riesce a cogliere la danza, nei loro tempi propri, dei miliardi e miliardi di molecole che compongono l’universo. Quella del tempo per me è una suggestione ricorrente, quindi torna e ritorna nelle mie poesie come sfondo di ricordi (Camp associativ – Cantina, pag.71; El buton, pag. 77;  Riga spartitraffic, pag.80)o addirittura di fantasie di altre vite vissute (Metempsicosi – Ritorno a Goreme, pag.43; Ipottesi, pag.47; Vivaldi, pag.55) o che vivrò, o semplicemente come misura dei  nostri  cambiamenti nel corso del suo fluire (Sintesi, pag.69; Quand artorne a Urbin, pag.79).

Campo associativo – Cantina

Umido odore di legna e di fascina

e passi sospesi.

Dalla grotta scura

un alito ghiaccio di morte

e di paura primigenia.

Mi ritrovo per un attimo piccola

con i tonfi del batticuore

dentro la trina tenace del buio.

Di là però

sono sicura

odoroso di vino e di frescura

mi aspetta il golfo tranquillo calmo della cantina…

Sogni di riposi beati e di abbondanza

grappoli fitti

turgore giallo di pannocchie

e nidi gremiti di uova

e in lontananza

pulcini a sciami

e grandine di noci e di nocchie

mucchi di grano d’oro crepitante e rude

rasposo sopra la pelle

delle mie gambe nude.

bis -Camp asociativ: cantina

Ummid odor de legna e de fascina

e pass sospesi. Da la grotta scura

un allitt giacc de mort e de paura

primigenia. M’artrov pr’un attim pcina,

sa i tonf del baticor, dentra la trina

tenac del scur. Dedlà pro, so sicura,

odoroso de vin e de frescura

m’aspetta el golf tranquill calm dla cantina….

Sogni d’ripos beati e d’abondansa

grappol fitti turgor giall de panocchie

e nid gremitti d’ov e in lontanansa

pulcin a sciam e grandin d’noc e d’nocchie

mucchie de gran d’or crepitant e rud

raspos sopra la pell dle mi gamb nud.

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Il bottone

Sotto il sinuoso ondeggiamento frusciante

dell’impermeabile lungo

color cachi

il ritmo del tuo passo al ralenti

per terra l’ombra inquieta palpitante

e dentro il cuore

l’attesa trepidante dell’eco per le scale

lo scrocco

il cigolio dei cardini …

i fiori della tovaglia

il luccichio del vino …

e le tue mani

la fronte pesante

di pensieri …

L’ho trovato nella scatola di latta

che nell’odore di muffa e di abbandono

aspetta costante

paziente

senza protesta

quieta …

E’ beige a quattro buchi

ancora

sotto ha un grumo di filo …

Portavi la giacchetta

sempre

e la camicia e la cravatta.

bis – El buton .

Sotta el sinuos ondegiament frusciant

dl’impermeabbil long color cachi

el ritme del tu pass al ralenti,

per terra l’ombra inquieta palpitant

e dentra el cor l’atesa trepidant

dl’ec per le scal, el scrocc el cigolì

di carchne….I fior dla tvaia, el lucichì

del vin…E le tu man, la front pesant

de pensier…L’ho trovat tla scattla d’latta

che tl’odor d’muffa e de abandon aspetta

costant pasient, sensa protesta, chiotta…

E’ beige a quatre bug, ancora sotta

c’ha ‘ngrum de fil…Portavi la giachetta

sempre, e la camiscia e la cravatta

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La riga spartitraffico

Riga…riga…riga…la scriminatura….

col pettine me la faceva

la mia mamma

davanti allo specchio….

la risento qui sulla pelle

in mezzo alla testa….

riga….del pigiama

avevo dieci anni?…

era di rasatello liscio

come di seta….

riga…riga…lama fina di luce

che tagliava le piastrelle

dagli scuri socchiusi….

riga…. riga…. trama che sfilavo

per fare l’orlo a giorno….

Riga Bianca….

correvo attorno alla piazza….

mi rivedo

con la gonnellina che svolazza

con l’affanno

sotto il Palazzo Ducale….

Fugge via questa riga

mentre torno a casa

nella corsia di sorpasso.

bis – Riga spartitraffic

Riga…riga…la riga…. el scarminell…

sa’l pettin me l’ faceva la mi mama

davanti al specch…l’arsent maché tla pell…

tel mezz dla testa…riga…del pigiama…

c’avev diec’ann? Era de rasatell,

come de seta, lisc….riga…la lama

fina de luc ch’taiava le piastrell

dai scur sochius, d’estat….riga…la trama

 

ch’sfilav pian pian per fè l’orell a giorn.

Riga Bianca!…corev torn ma la piassa…

m’arvegg sa la gonlina che svolassa,

 

sa le trecc, sa l’afann, sotta el palass

ducal….Fugg via ‘sta riga mentre artorn

a casa, in tla corsia de sorpass.

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Metempsicosi – Ritorno a Goreme

Forse io veleggiai sull’altipiano

su ondulanti cammelli nell’afrore

di lente carovane che lontano

navigavano. E il languido torpore

della sfatta lussuria del sultano,

donne in scrigni di vesti dall’odore

carnale forse seppi, e il meridiano

greve corrotto magico fulgore

di Istambul. Seppi l’abbandono molle

e lo sbocciar frusciante di corolle

in vortici di danze senza fine.

E seppi dita acerbe di bambine

alle arpe dei telai, i riflessi rosa

del sale.   E questa pomice corrosa.

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Sintesi

Mentre fuori

si riaccende un giorno normale

come un altro,

ti prego, Signore,

solo per un minuto,

ridammi,

rifammi le palpebre di velluto

come ieri.

Mentre la trama sempre uguale

di là dal vetro si ricompone

e tutto ricomincia la sua corsa

tale e quale,

rifammi le guance dolci

come un frutto maturo,

ridammi la fresca acerba voce di ieri,

l’incavo del fianco,

lo slancio feroce del passo,

lo sciame delle attese

dietro la fronte

e l’onda dei capelli intrisi di vento,

quando ancora

la dura incandescente saggezza d’oggi

era di là dall’orizzonte.

bis – Sintesi

Mentre fora s’arcend un giorn normal

com ‘n antre, t’preg, Signor, sol p’r un minutt

de dentra la cornic de ‘st specch oval

ardamm, arfamm le palpebre de vlutt

com ier, mentre la trama sempre ugual

dedlà dal vetre s’arcompon e tutt

arcmincia la su corsa tal e qual

p’n attim arfamm le guanc dolc com un frutt

matur, ardamm la fresca acerba voc

de ier, l’incav del fianc el slanc feroc

del pass el sciam dle ates dietra la front

e l’onda di capei intrisi d’vent,

quand ancora la dura incandescent

sagessa d’ogg era dlà d’l’orizont.

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Quando torno a Urbino

Va e viene come il tic tac dell’orologio

cammina l’ombra

si nasconde piano sotto il loggiato

poi ricresce

e il sole

poco più di una fettuccia sottile

si allarga e poi si ritira sul selciato.

E l’eco delle voci

rimbalza e si sfarina

da muro a muro

si srotola nel fiato dell’aria

che la ricompone e la rimescola,

oggi come ieri.

Il tempo pare che si sia fermato.

Dall’ombra al sole

dal sole all’ombra

passa come ieri la gente,

si raccoglie sotto le logge,

parla e passeggia

e poi risciama nella piazza,

si sparpaglia per i vicoli,

come ieri oggi.

Ma negli occhi spenti

nelle facce gualcite

si specchia il tempo.

Guardo.

E so di essere diventata vecchia.

bis – Quand artorne a Urbin

Va e vien com el tic tac dl’orlogg, camina

l’ombra, se nascond pian sotta el logiat

po’ arcresc, e el sol poc pio d’na ftuccia fina

se slarga e po s’artira tel selciat,

e l’ec dle voc rimbalsa e se sfarina

da mur a mur, se srotola tel fiat

dl’aria che l’arcompon e l’armuscina,

oggi com ier.  El temp par ch’s’è fermat.

Dal’ombra al sol dal sol al’ombra passa

com’ier la gent, s’arcoi sotta le logg,

parla e paseggia e po’ arsciama tla piassa,

se sparpaia pi vigol. Com ier ogg.

Ma ti occhie spent, tle facc gualcitt se specchia

el temp. Guard. E so ch’so dventata vecchia.

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2) GD -Presente e memoria, spirito in cerca di risposte nel corpo che cambia. E, in tutto questo, la lingua, il dialetto, la loro musicalità. Ecco, proprio dalla musica vorrei ripartire. Schopenhauer ricordava che essa, più delle altre arti, rapisce l’animo, lo fa evadere, lo libera dalle costrizioni. La tua poesia, così affollata di suoni, ritmi e richiami sinfonici, che cosa deve alla musica? Che rapporto c’è fra queste due arti?

RG – Credo che dalla musica mi derivi l’esigenza di una poesia che, oltre che dire, attraverso un significato diretto ed esplicito o più nascosto e visionario, canti. Le parole hanno un ritmo e un suono , che variano  nel loro incontrarsi e combinarsi.  Questo livello, nel farsi di una poesia,  per me è molto importante.  Una poesia nasce nel momento in cui quello che voglio dire trova il suo ritmo e il suo suono, la sua musica.  Non più la musica della metrica classica in senso stretto, certamente, ma di una metrica moderna che la riecheggia nei quinari senari settenari… e pure endecasillabi, variamente combinati nel verso libero.   E che non rinuncia alla rima, a fine verso o al mezzo, alle assonanze, consonanze, allitterazioni,  fuori ovviamente da schemi  fissi.    Oggi  uso il sonetto solo per le poesie d’occasione, rigorosamente scherzose, perlopiù auliche, alla Giovan Battista Marino, e irrinunciabilmente per quelle in dialetto,  che mi arrivano  in quel ritmo e in quella forma e non in altre  (Vivaldi,  pag.55;    Concert K488, pag.57).    Ma per molto tempo ho usato il sonetto anche per le poesie  in lingua , pur consapevole di quanto fosse démodé. La  seconda sezione di questa raccolta,”In filigrana”, comprende antichi sonetti  nei quali l’endecasillabo è spezzato in versi  liberi più brevi. Ma in filigrana, appunto, resta il ritmo originale.

Vivaldi

Sono scesa con le zattere

giù per l’Eufrate

può darsi

o ho navigato

forse

nell’altipiano della Cappadocia

o forse

chissà

ho contato le stelle

sopra le rotte di Magellano.

Visionaria Sibilla

chissà

sopra le foglie nel vento

ho decifrato l’arcano oppure

asceta santo

ho digiunato sopra la stele

o nel deserto.

Invano

quando la mattina il vetro si fa chiaro

cerco la risposa

tra i brandelli dei sogni perduti

di là dalla porta del sonno crepuscolare.

So solo che mi sento addosso

la pelle di un’orfanella della Pietà

che sospira

innamorata del prete rosso.

bis – Vivaldi

So scesa sa le zatter gio pl’Eufrat,

po’ darsi, o ho navigat fors tl’altipian

dla Capadocia, o, fors, chisà, ho contat

le stell sopra le rott de Magelan,

visionaria Sibilla ho decifrat,

chisà, sopra le foi tel vent l’arcan,

opur asceta sant ho digiunat

sopra la stel o in tel desert.  Invan

quand la matina el vetre se fa chiar

cerc tra i brandell di sogn persi de dlà

da la porta del sonn crepuscolar

la risposta. So sol ch’me sent adoss

la pell d’una orfanella dla pietà

ch’sospira innamorata del pret ross.

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Concerto K 488

Mentre la palpebra del cielo si chiude

sopra il giro dell’orizzonte

e concilia l’abulia del sonno

e il mondo diventa palude d’ombra

e il silenzio si tinge di nostalgia

e la Sibilla si fa gentile

e nudo canta il segreto del senno e della pazzia

e il mistero si dischiude

come un bocciolo

vorrei essere

solo una scheggia di energia

perfetta

senza corpo

un fiato di vento

un granello di sabbia nel deserto

una goccia d’acqua nella sorgente

il brivido che si increspa

a mezzanotte

la nota

che

trema

e

muore

nel concerto di Mozart

K 488

bis – Concert K 488

Mentre la palpebra del ciel se chiud

sopra el gir dl’orizont e l’abulia

del sonn concilia e el mond dventa palud

d’ombra e el silensi s’tign de nostalgia

e la Sibilla s’fa gentil e nud

canta el segret del senn e dla pasia

e el mister com un bocciol se dischiud

vria essa sol ‘na scheggia d’energia

perfetta senza corp un fiat de vent

un granelin de rena tel desert

essa ‘na goccia d’acqua tla sorgent

el brivvid che s’increspa a mezanott

la nota ch’trema e mor in tel concert

d’Mozart   Kappa quattrecentottantott.

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3) GD -Abilità descrittive e di introspezione si intrecciano nei tuoi versi, ora liberi, ora racchiusi nella forma sublime del  sonetto. Vuoi dirci che cosa ti lega a questo modello metrico-ritmico, inventato nel Duecento da Jacopo da Lentini, ma ancora in auge? Penso a Patrizia Valduga, oggi, tanto per fare un nome. Ma ti chiedo anche, pensando alla Roma fra Otto e Novecento: i sonetti del Belli o di Trilussa c’entrano qualcosa nel tuo affidarti, anche  per il dialetto, a questa forma classica?

RG – Il sonetto mi è arrivato, in lingua, nei primi anni delle elementari , con “L’aquilone”, “La cavalla storna” (che pianti!), “Odio l’allor” di Zanella.  Alle medie con Farinata Ulisse e il Conte Ugolino, che il professor Vignale ci lesse e ci spiegò con passione. Trilussa Belli Porta sono arrivati al liceo. E con loro ho scoperto che la poesia in dialetto può essere poesia ed avere dignità letteraria.

E poi Pasolini Loi Guerra… Ma per l’inizio di una scrittura in dialetto convinta, abbastanza continua e fertile, determinante fu la circostanza, presso l’ACLI, di una conferenza,  che vide il prof. Paioni  ed il prof. Scalia  conversare sul tema “Lingua e dialetto”. Era l’agosto 1999. In particolare a rivelare a me stessa la mia “vocazione” fu la definizione che il Prof. Scalia  ad un certo punto del suo intervento diede del dialetto: “Il dialetto è la madre della lingua e la lingua della madre”;  ed anche “Chi va lontano capisce la propria identità”.

Forse col dialetto mi trattengo aggrappata alle mie origini? Il dialetto forse  dà in qualche modo consistenza ad un tempo che talvolta mi sembra appartenga più ad un altro che a me.

Ma l’endecasillabo, già prima di arrivare al dialetto, nel tempo  l’ho praticato  variamente, oltre che nella poesia, nella corrispondenza epistolare-coniugale, e  talvolta, quando ancora insegnavo,  anche nella stesura dei noiosissimi verbali che nelle mie funzioni di segretaria  dovevo stilare alla fine dei consigli di classe e degli scrutini. Per quello che è stato forse il mio primo sonetto ho un riferimento cronologico preciso:  l’uscita del film di Albert Lewin “Pandora”.  Ricordo lo sfarfallio di volantini, lanciati da una giardinetta che girava per Urbino, e la voce metallica del megafono che ne annunciava  la proiezione presso la Sala Feltria.   Io raccolsi devotamente parecchi di quei volantini, che sul retro, anche se in trasparenza continuava a sorridere una affascinante Ava Gardner , erano  puliti:  in tempi in cui la carta non si sprecava e si usavano le copertine nere dei quaderni per ritagliare le mascherine di carnevale, facemmo a gara a chi ne raccoglieva di più.   Quelli che io raccolsi li cucii e ci feci un libriccino. Per le mie poesie.  Del sonetto che scrissi su quel libriccino mi è rimasta nella memoria solo la prima quartina e due versi di una terzina.

Nella notte ascoltando splendenti /  stan le stelle le note sonore/ che da un flauto con morbidi accenti/ volan dolci, e che suona un pastore.

…e la luna sta attonita, piano/ s’è fermata per solo un momento…(che rimava con “firmamento”).

Il film uscì nel 1951. Mi faccio tenerezza per la bambina che ero. Avevo nove anni.

4) GD -La tua poesia, oltre a pensieri ed emozioni che tutti possono comprendere, riserva anche sorprese che richiedono un attimo di sosta, o di ricerca. Tutte caratteristiche già in se stesse rivelatrici della tua cultura intensamente vissuta, nell’intreccio di vasti interessi umanistici e scientifici, spesso in dialogo fra loro.

Vuoi dirci qualcosa di tale sinergia? Quali sono le poesie che più ti corrispondono, da questo punto di vista?

RG – La mia formazione è classico-letteraria.  Ma mi affascinano il bosone di Higgs, le onde gravitazionali, l’antimateria, i quark, lo spazio tempo. Leggo gli scritti divulgativi di Carlo Rovelli, “L’ordine del tempo”, “Sette brevi lezioni di fisica” col trasporto di un romanzo. Già negli anni settanta mi intrigavano i buchi neri raccontati da Isaac Asimov e la teoria della relatività spiegata da Bertrand Russel . Ma arrivata ad un certo punto vengo sopraffatta dalla complessità. E mi rammarico di non poter capire tutto come vorrei.  In diverse poesie compare la traccia di questa mia fascinazione(Geometria, pag.51).Nel febbraio 2016 dall’interferometro situato all’European Gravitational Observatory a Cascina, presso Pisa, fu registrata l’increspatura dello spazio-tempo prodotta da un cataclisma astrofisico, la fusione di due buchi neri lontani 1,8 miliardi di anni luce. Si è trattato della prima prova diretta sperimentale delle onde gravitazionali che ha confermato una importante previsione della Relatività Generale di Einstein ed  aperto un nuovo straordinario scenario di scoperte sul cosmo.L’onda ( pag. 87)l’ho scritta in quei giorni.

Geometria

Ho camminato stanotte l’incongruenza

di un tondo chiuso duro

in uno scuro intossicato,

cercavo tentoni cieca

una sporgenza un angolo

una crepa

una protuberanza.

Ma ostinato frusciava

il muro liscio della circonferenza

sotto la mano.

Stanotte chissà

nella luce

camminerò un quadrato

l’equivalenza pacificata degli angoli e dei lati

la lucida cadenza della rientranza ortogonale

il bianco del percorso diritto

e poi di nuovo la pausa

in un’ alternanza di voce e di silenzio.

Sotto le dita

ruvido e gentile

il muro tornerà.

Aspetterò con gli occhi aperti nell’oscurità.

bis – Geometria

Ho caminat stanott l’incongruensa

d’un tond chius dur tun scur intosicat

cercav a tenton cieca ‘na sporgensa

‘n angol ‘na crepa ‘n sbrossol. Ma ostinat

frusciava el mur lisc dla circonferensa

sotta la man. Stanott chisà ‘n quadrat

caminarò tla luc, l’equivalensa

pacificata di angol e di lat,

la luccida cadensa dla rientransa

ortogonal, el bianc del percors dritt

e po de nov la pausa, t’n’alternansa

de voc e de silensi. Sotta i ditt

ruvvid artornarà e gentil el mur.

Aspetarò sa i occhj apert tel scur.

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L’onda

L’onda del mare

l’onda del vento

del fiato

del sangue

del pensiero

della melodia che increspa l’aria

l’onda delle risate che fanno brillare gli occhi

del pianto

della nostalgia quando si fa sera

del cuore innamorato

l’onda nelle vene del melo

della fantasia che vola

del grano maturo nel golfo dell’estate

l’onda della assennatezza e della pazzia.

L’onda.

Il ritmo dei giorni

il gran respiro delle stagioni

delle sementi nella terra.

L’onda.

Il palpito dei pianeti

dentro l’anello delle orbite

nel fuoco del sole  che rifà il suo giro.

L’onda.

Il mistero che illumina

nella sponda del tempo senza confini

il grido delle stelle.

bis – L’onda

L’onda del mar l’onda del vent del fiat

del sangue del pensier dla melodia

ch’increspa l’aria l’onda dle risat

ch’fan brilè i occh del piant dla nostalgia

quand s’fa sera del cor inamorat

l’onda tle ven del mel dla fantasia

ch’vola del gran matur tel golf dl’estat

l’onda dl’asenatessa dla pasia

l’onda el ritme di giorne el gran respir

dle stagion dle sement tla terra l’onda

el palpit di pianet dentra l’anell

dle òrbit tel foc del sol ch’arfà el su gir

l’onda el mister ch’illumina tla sponda

del temp sensa confin el grid dle stell

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5) GD –  Il tempo e il tempo dell’amore, degli amori. Sentimenti capaci di riempire di sé ogni istante dell’esistenza, ogni gesto, ogni pensiero. Fino a costituire l’intima ricchezza di una vita familiare e di coppia che non sa immaginarsi senza l’altro, eppure deve abituarsi alla solitudine, al silenzio. Su questa lunghezza d’onda, sarebbe bello ascoltarti, prima di leggere qualche nuova poesia…

RG -Amo la solitudine, ma non sono una solitaria, sto volentieri anche in compagnia.    E amo  il silenzio,  (Il silenzio, pag.13) che mi permette di ascoltare tante voci. Sono gelosa dei miei sentimenti più intimi e non mi piace raccontare nelle mie poesie  emozioni  immediate. Ho bisogno di frapporre una certa distanza fra il sentimento e la sua espressione, ed  anche da questo penso derivi  l’esigenza della cura formale. Ho tante poesie di felicità e di dolore che terrò solo per me perché scomposte ed eccessive. Preferisco che il mio cuore si riveli attraverso il mio pensiero e attraverso lo sguardo che poso sulle cose che ci stanno attorno.  In alcune poesie presenti in questa raccolta c’è grande dolore, rimpianto (Casa, pag.38; Il tagliaerba, pag. 40; Orfeo, pag.44), ma il tutto  credo  sia controllato. Per questo le ho pubblicate.

Il silenzio

Il silenzio tu

non lo senti.

non è bianco rosso o blu

non ha sapore

non ha temperatura né odore.

Il silenzio non è.

E’ assenza.

Eppure senza

silenzio

cos’è

il palpito dell’anima che si ritrova

la notte di luna nuova

quando vuoi ascoltare

il sospiro

delle galassie più remote

il richiamo dolente

delle vite lassù vissute e spente

in ere lontane lontane lontane da capogiro

carpire le sillabe del segreto

nell’inquieto respiro

del mare.

Cos’è la dolcezza della noia

il sapore della gioia

che lento nel silenzio si scioglie

l’impeto effimero della felicità

che non sa

durare

e la sua magia subito perde

e subito diventa nostalgia

l’azzurro della speranza

la fragranza di un ricordo

il sussurro sillabato di una poesia.

Il silenzio non è assenza.

E’ il luogo in cui il pensiero ricama

la trama

delle sue verità.

E’ la prospettiva indefinita

il muto sfondo

su cui  piange ride canta

soffre e gioisce la nostra vita..

E’ la pausa nel suono che torna e si rinnova.

E’ un prima e un dopo.

E’ allegoria.

E’ il nulla da cui sboccia lenta

o perentoria si impone

la sinfonia.

L’immensa dimensione vuota

in cui si perde e annega

l’ultima nota.

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Casa

Ti ripercorrerò

come un viandante senza bussola

avanti indietro

ancora

casa di te

di me

casa sonora

fatta silenziosa in un istante.

Mi aggirerò

nel vuoto lancinante dei canti più nascosti

dove l’ora

del tempo si dipana

e già scolora

lenta

ogni impronta,

o casa mia fragrante ancora di parole

di rumori

di gesti d’ogni giorno.

E mentre fuori

scroscia rapido il fiume che uniforma

e cancella,

qui cerco la tua forma,

negli abiti appesi

nelle scarpe recline

nel tepore delle sciarpe.

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Il tagliaerba

Vorrei fermare nel tempo

questo odore di erba fresca tagliata

che ritorna

di maggio

ancora.

In questa disadorna giornata

nel giardino delle suore

oltre il muro

la lama del motore recide,

voce stridula che torna

di maggio

ancora

e l’anima frastorna.

Vorrei fermare nel tempo

il mio dolore,

resti con me fragrante come adesso

che sto seduta a capo chino

presso il muro,

fino agli orti degli Elisi.

Che resti

e non vanisca come questa

acre essenza che esala dai recisi

steli. E’ vita il dolore

per chi resta.

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Orfeo

Anche stanotte dietro la cortina

delle palpebre chiuse nella stanza

dei sogni senza tempo che confina

col sonno senza tempo con costanza

testarda t’aspettavo. Una collina

d’un tratto c’era nella dissonanza

d’una finestra verde, e una marina

verde, incongrua, e una vela in lontananza

verde.  Non so per quale melodia

con la mia lira pallida di vetro

scendevo nelle pieghe della notte.

E come Orfeo scendevo nelle grotte

degli Inferi. Eri lì. Ma sulla via

nel risalir mi son voltata indietro.

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6) GD – Filo conduttore degli anni trascorsi sono le case. Case che cambiano nel tempo come le persone. Mutamenti che tu registri in versi indimenticabili, dove la concretezza delle cose stempera il rimpianto e riaccende la memoria, restituendo a ogni frammento la sua verità, la sua gioia, il suo dolore. A te la parola…

RG – Sì, le case. Quelle di Urbino, una al n. 36 di via Veterani, dove sono vissuta fino ai quindici anni, l’altra, al n.30 della stessa via, che ho conservato per i miei radi ritorni, ma che ho sottoposto a un…restyling totale. Che ha comportato una   distruzione del suo aspetto antico e la dispersione, angosciante, di tante tracce di vissuto. Ora ristrutturata, bellina, parva (l’ho divisa, metà l’affitto) sed apta mihi,   aspetta paziente i miei scappa e fuggi e le mie soste più distese nel mese di agosto.  La casa è un archivio di memorie  che dà in qualche modo consistenza e concretezza al passato restituendogli  la sua realtà, il suo essere esistito.  E, lontana, si trasfigura in mito. Per  la casa di Roma, che ho qui, nella quale mi aggiro, questa trasfigurazione non esiste. Di essa può diventare spunto di poesia tutt’al più il giardino,  la pianta di limone che pareva morta e che sta ricicciando, la guerra della gramigna e del trifoglio per il   dominio del prato o l’arroganza del gelsomino che ha strangolato l’albicocco.(Ritorno, pag.42; Camp asociativ: cantina, pag.71; Casa nova, pag.73)

Casa nuova

Rinasce questa casa mia

vergine

come un’alba senza sogni

appena un po’ rabbrividita.

Come un’aliena

giro

per imparare la voce del pavimento sotto i passi

per studiare il corrugamento

della luce e dell’ombra

conoscere l’altalena

degli angoli e degli spigoli.

Senza pena

penso che dietro ormai

non c’è rimasto più niente.

Come una tenda di velluto

senza rumore

si apre e si richiude il tempo feroce

si sgrana ogni gesto smemorato

senza spessore

ogni palpito del cuore si fa di ghiaccio.

Ieri mi sono messa l’urna sotto il braccio

e ho sparpagliato le ceneri su nella Cesana.

bis -Casa nova

Arnasc ‘sta casa mia nuda e innocent

vergin com ‘n’alba sensa sogn apena

un po’ rabrividitta. Com ‘n’aliena

gir pr imparè la voc del paviment

sotta i pass, per studiè el corugament

dla luc e dl’ombra, cnoscia l’altalena

di canton e di spigol. Sensa pena

pens che de dietra ormai ‘n c’è armast pio gnent.

Com ‘na tenda de vlutt sensa rumor

s’apre e s’archiud el temp feroc, se sgrana

ogni gest smemorat sensa spesor,

ogni palpit del cor se fa de ghiacc.

Ier me so messa l’urna sotta el bracc

e ho sparpaiat le cenre so tla Csana.

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7) GD -C’è tanto in questo libro; c’è specialmente la vita, come si diceva all’inizio. Una vita che non ha conosciuto noia o stanchezza. La vita di un’anima che continua a sperare.

Sull’onda di questo messaggio positivo, che sembra sia il fulcro di “Hysteron Proteron”, la parola, insieme al nostro grazie, torna di nuovo a te…

RG – Per concludere questo dirò. La mia poesia nasce da un desiderio di condivisione, di una esperienza, di uno sguardo, di una prospettiva. Se a qualcuno piace, se riesce a comunicare una maniera di considerare quello che ci sta attorno, se crea una sintonia, sono contenta.    Tutto può diventare spunto di poesia.  Anche le cose piccolissime. A me  piace la voce delle cose piccole, che tornano e ritornano nelle mie poesie. In questa raccolta, vedi “La voce delle piccole cose” (pag. 7), “Lettera22″(pag.10), “Sguardo” (pag.15). Questa suggestione penso che mi derivi dalla identificazione  con le cose piccole di me stessa, ma anche della nostra condizione di umani , della infinita  piccolezza e insignificanza della nostra terra  rispetto alla misteriosa vastità dell’universo.

E grazie di cuore a tutti per la presenza e l’attenzione.

 

La voce delle piccole cose.

La voce delle piccole cose,

minuscola cosa

troppo silenziosa

per far vibrare l’aria.

Il fruscio

della linfa che preme

la minuscola gemma,

della minuscola foglia che freme

sul ramo del pesco,

del frutto che pende

e attende la mano

a maggio

del corpuscolo sospeso nel raggio

di sole

del fresco

odore di menta

nel giardino

della volatile molecola che esala

dalla buccia d’arancia dentro il piatto

della vibrissa del gatto

che punta l’uccellino

della parola

presuntuosa

piena di sensi universali

silenziosa

smarrita nella gola.

Della piccola gocciola esultante

nell’effervescenza della sorgente

o nell’inquieta corrente

che plasma la nuvola

o che riposa

nella calma

–la piccola goccia minuscola cosa–

di un mare di bonaccia.

La minuscola voce del grano di rena sulla duna

che il vento modella

della minuscola remota stella

nascosta nel chiarore della luna

del minuscolo globuscolo di schiuma

che gioisce e si frantuma

nell’onda di marea.

La mia piccola minuscola voce

smarrita nel fondo

del frastuono feroce.

La voce del nostro minuscolo

piccolo mondo umano

distratto disperso

che non sa ascoltare il suono infinito

vicino e lontano

dell’universo.

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Lettera 22

La gomma tonda piatta

indurita

ormai fatta

di cemento…

oh!…struggimento

dell’Olivetti lettera ventidue

delle tue

mani

dei tuoi pensieri sui tasti

la tua ansietà…

ieri?

no…no…cent’anni fa.

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Sguardo

Mi chiedi: Che vedi?

Soltanto un muro bianco, dico.

Sorridi

perché tu invece scopri

nel graffio scuro

nella cicatrice ossidata della vernice

la grana dell’intonaco antico

la sabbia e il cemento che fu sasso nel fiume

l’acqua che lo ha intriso

il passo della nuvola il pianto o il riso dell’aria

quando il metallo lo ha impastato

la miniera in cui la spatola

ha incubato la sua utile funzione..

Mi chiedi: Che vedi?

Dico: Benedizione di colori

dal rosso di pomodori al bianco

di cavolfiori e finocchi

su un banco

di supermercato.

Sorridi.

Perché (oltre va la tua percezione)

tu scorgi la nenia degli orti lungo il Nilo

(globalizzazione è pure questo)

il canto

dei ciliegi cileni

delle serre andaluse

le caviglie agili nel flamenco,

i pizzi madrileni delle mantiglie il venerdì santo.

Tu nel perentorio tondo rosso

di un pomodoro pachino

senti la mano di chi chino lo ha colto

sudore su un volto.

Senti fuga da terre amare,

guerre.

Senti tormento pericolo esilio nostalgia.

Senti il lamento

di chi non ce l’ha fatta ad arrivare,

si è perso sulla via.

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