1. POST FESTIVAL DIGITALE “VALERIO VOLPINI E LA RESISTENZA” 28 dicembre 2013
Appendice Festival Digitale “Valerio Volpini e la Resistenza” – Dicembre 2013 (1)
Fano. Per 13 Giornate del festival digitale, fra luglio e agosto 2013, abbiamo pubblicato molti articoli e testi letterari di Valerio Volpini, Aldo Deli, Angelo Paoluzi, Enzo Uguccioni, Angelo Sferrazza, Gabriele Baldelli, Giovanni Volpini, Gastone Mosci ed altri collaboratori del Circolo Culturale Jacques Maritain di Fano. Abbiamo cercato di far conoscere la vita del mondo fanese e del territorio fra il 25 luglio e l’8 settembre 1943: la sfiducia e l’arresto di Mussolini, la caduta del Fascismo, il governo Badoglio, la fine dell’alleanza con Hitler, l’inizio della Resistenza armata, la guerra accanto agli Alleati, Fano nella distruzione bellica ed altro.
Valerio Volpini, testimone della cittadinanza politica
Il nostro personaggio di riferimento era Valerio Volpini (1923 – 2000) con la sua testimonianza civile e umanitaria, con le sue poesie, i suoi racconti, le sue ragioni di fede cristiana. Volpini è poi stato anche scrittore, critico letterario, consigliere comunale e regionale, direttore della rivista “Il Leopardi” (1974 e 75) e de “L’Osservatore Romano” (1978-1984), collaboratore di “Famiglia Cristiana”, autore fra l’altro di due libri emblematici: “Fotoricordo e pagine marchigiane” (1973) e “Sporchi cattolici” (1976).
L’attenzione culturale e sociale per gli eventi italiani legati ai settant’anni della nuova immagine politica e democratica italiana ha sollevato interrogativi e inquietanti risposte: l’impazienza d’oggi sembra sprofondare nel fiume dell’antipolitica. Eppure siamo connessi a quei fatti e a quel passato che rappresentano il nostro cammino e il nostro futuro: la resistenza come cardine della libertà e della democrazia in sede nazionale e per l’avvento dell’Unione europea. Proviamo a continuare le riflessioni su quanto è accaduto, a cercare esperienze lasciate in ombra ma non perdute e a sostegno di un immaginario politico legato alla cultura della resistenza.
L’Appendice Festival Digitale dal 28 dicembre
Iniziamo con un appuntamento ogni venerdì dell’Appendice Festival Digitale “Valerio Volpini e la Resistenza” con varie voci a partire dal 28 dicembre. Nel primo sommario: “Quel Natale del 1943 a Corinaldo” di Angelo Sferrazza, che ha già scritto sul 25 luglio e l’8 settembre 1943 a Fano nel Festival digitale; “Il clero nella Resistenza” (1) di Angelo Paoluzi, che su questi temi ha recentemente collaborato con il Sir e “Il nuovo amico”, e il saggio “Valerio Volpini poeta civile” di Gastone Mosci, che ha orchestrato l’attenzione su Volpini poeta nel Festival Digitale. Pubblicato nel volume della Poesia Onesta 2013, “Scrittori in italiano e in dialetto”, a cura di Fabio M. Serpilli, Falconara, Versante 2013. Altro materiale di prossima pubblicazione su Volpini: gli Atti del convegno del decennale, “Valerio Volpini, letteratura e società”, 27 novembre 2010, nei Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche. (Gastone Mosci)
1.
QUEL NATALE DEL 1943 A CORINALDO
di Angelo Sferrazza
E’ stato difficile raccontare alle figlie quel Natale di settanta anni fa: con i nipoti sarà impossibile. Settanta anni sono tanti, ma non tali da cancellarne il ricordo. Uno studioso americano ha scritto che eventi fortissimi, di ogni tipo, raddoppiano l’età del bambino che li vive. Pur avendo allora solo quasi otto anni, ho ancora impresse nella memoria le date del 25 luglio e dell’8 settembre ’43, anche perché vivevo a Fano nel deposito militare del 94° Reggimento Fanteria, da dove dopo il 10 settembre siamo dovuti scappare prima dell’arrivo dei tedeschi. Fummo ospitati e nascosti per qualche giorno in una casa di gente semplice e buona, poi accompagnati a Corinaldo, dove restammo fino alla Liberazione, il 10 agosto del 1944.
La vita dello “sfollato” non era facile, anche se noi avemmo la fortuna di essere accolti per un anno in una casa di persone straordinarie. In quei due anni fra il ’43 e il ’44 emersero una solidarietà e una fraternità incredibili, che riscattò la violenza cieca e brutale di altri. Una lezione da portarsi dietro per tutta la vita. E nella casa di quella famiglia trascorremmo il Natale del 1943. Di quello degli anni passati ho solo, ovviamente uno sbiaditissimo ricordo, i “cappelletti” in brodo e certi dolcetti al miele, sfingi, che mi mandava la nonna dalla Sicilia. Con l’Italia divisa, nessun pacco con la carta blu fuori e oleata dentro arrivò in quell’anno.
Ma ci fu il presepio, con “vellutina”, pastorelli e il Bambin Gesù. Un presepio povero, ma con significati che non ho più ritrovato nel futuro, significati religiosi e spirituali. Perché quel periodo fu segnato da una forte religiosità. Per me piccolo, che forse non ero mai stato in chiesa, se non per un matrimonio o prima comunione di una cugina, si aprì un mondo sconosciuto e misterioso. Il pellegrinaggio quotidiano all’inizio dell’estate ’44 delle donne quasi tutte scalze e che recitavano a voce alta il rosario alla Madonna dell’Incancellata. E la conoscenza della mamma di Santa Maria Goretti, che abitava a pochi metri dalla casa che ci ospitava e che invitava noi bambini a pregare, cosa che non sapevamo fare, ma che ci sembrava importante.
Non ci fu Messa di mezzanotte naturalmente: c’era la guerra e poi io non sapevo nemmeno cosa fosse. Che cosa mangiammo non ricordo, ma certamente non i “cappelletti”. Ricordo che mio padre e mia madre erano molto tristi. Nessun collegamento con i parenti, niente auguri eppure Fano era vicina, ma la Sicilia no, niente posta, nessun modo per comunicare. Sembra un trucchetto letterario, un escamotage, ma se mi chiedessero: “di che colore era il Natale del ’43”, risponderei , “grigio” , perché anche il tempo ha un colore. Quello del ’44 a Fano, di nuovo con gli zii e i cugini, con qualcosa di più buono da mangiare, colorato.
La fame. O per lo meno la difficoltà di trovare cibo fu la costante angoscia di quell’anno, ma soprattutto la mancanza di denaro. E’ un miracolo come sopravvivemmo. Forse non è del tutto corretto, concettualmente e storicamente, ma la voglia di confrontare quel Natale con quelli di oggi ti prende, soprattutto in questi momenti di crisi. Da farti apparire fuori posto, esagerate, eccessive certe lamentele, ma a capire meglio e condividere le difficoltà di chi si trova senza più lavoro o una casa. Ricordo che mia madre mi raccontava che da piccolo mangiavo le banane, ma nel ’43 non sapevo cosa fossero. Riapparsero qualche anno dopo la fine della guerra. E la cioccolata? Dimenticato il sapore. La prima ce la regalarono gli inglesi, pochissima in verità: la prodigalità non era di quelle truppe, ma non erano ricchi come gli americani!
Il 10 agosto scorso sono tornato a Corinaldo. Ho avuto la fortuna di ritrovare, abbracciare e salutare, l’ultima persona vivente della famiglia che ci ospitò, la signora Vera Paniconi. Buon Natale signora Vera! E Buon Natale a tutti quelli che il giorno di Natale si adoperano a farlo sentire meno triste a chi soffre, qualunque sia la sua sofferenza, la nazionalità, la religione.
(Angelo Sferrazza)
2.
IL CLERO NELLA RESISTENZA (1)
di Angelo Paoluzi
Sono beati e santi cattolici, decorati al valore militare e civile per la partecipazione alla Resistenza, inclusi in Israele fra i “giusti delle nazioni” per aver salvato ebrei. Parliamo di religiosi italiani. Vanno ricordati in questi settant’anni dalla caduta del fascismo il 25 luglio 1943 con il successivo armistizio dell’8 settembre, seguito dall’occupazione nazista del Paese e dai diciotto mesi di guerra partigiana.
I preti nella rappresaglia nazista
Gli eccidi dei tedeschi contro le popolazioni erano cominciati ancor prima che le forze dell’Asse, in agosto, dovessero lasciare la Sicilia: a Mascalucia, a Pedana, a Castiglione; con l’uccisione, a Messina, del primo prete italiano, don Antonio Musumeci, accorso a difendere la gente. Dopo l’armistizio, a Napoli tocca a don Gino Cruschelli; il 19 settembre a Boves con la prima rappresaglia nazista: cadono don Giuseppe Bernardi e don Mario Gribaudo, in via di beatificazione ambedue. Don Pietro Morosini, medaglia d’oro al v.m., sarà fucilato a Roma, dove morirà alle Fosse Ardeatine anche don Pietro Pappagallo, decorato al valor civile e incluso da Giovanni Paolo II fra i martiri della Chiesa.
La memoria di don Minzoni
L’Italia detiene un triste record: nel 1923 don Giovanni Minzoni, decorato di guerra, avversario della dittatura, fu il primo prete assassinato dalla destra per ordine del ras fascista di Ferrara. Anni dopo il nazismo in Germania seguirà quelle piste di sangue, con più di trecento consacrati fatti morire in dodici anni e migliaia inviati nei Lager. In Italia, in appena diciotto mesi fra il ’43 e il ’45, le vittime furono fra loro oltre 280. Numerose le medaglie, al valor militare e civile: 17 d’oro, 34 d’argento, 46 di bronzo e 50 le croci di guerra.
Religiosi e suore nella Resistenza
La partecipazione alla Resistenza – notano gli storici – fu un fatto naturale fra il clero, i religiosi e le suore; l’85 per cento di loro aiutò, con cristiana spontaneità, gli ebrei, i perseguitati politici, i partigiani, i giovani in fuga dall’esercito di Salò, i soldati alleati in cerca di rifugio, senza chiedere postumi attestati. Non a caso Israele onora nel memoriale Yad Vashem di Gerusalemme quei “giusti delle nazioni” che hanno aiutato e salvato ebrei dai nazifascismi di tutta Europa durante il conflitto. Sul totale di 24.375, gli italiani sono 525, e all’interno di quella cifra è significativa la presenza di 62 fra cardinali e vescovi, preti, frati e suore.
L’accusa al paganesimo nazista
Il paganesimo nazista in tutta l’Europa occupata non fece a tempo ad attuare la “soluzione finale” anche per la Chiesa e i fedeli cristiani. Ma si riprometteva – a guerra terminata e vinta, secondo la sua folle illusione – di farla finita una volta per sempre con i seguaci dell’ebreo Gesù Cristo. Don Roberto Angeli, deportato per parecchi mesi in un Lager, a chi gli chiedeva il perché delle uccisioni di tanti suoi confratelli, rispondeva: “…quando un prete si imbatteva nel vero volto del nazifascismo, egli veniva a trovarsi, proprio perché sacerdote, in atteggiamento di opposizione, Il nazismo non poteva sopportare, e condannava come il più terribile dei delitti, la pratica delle virtù teologali della fede e dell’amore…”. Il dovere dell’asilo era stato affermato in modo chiaro da Don Sergio Pignedoli su L’Osservatore Romano del 30 dicembre 1943 – in piena occupazione nazista di Roma – scrivendo di un necessario, irrinunciabile comportamento dei preti a favore dei perseguitati. E così anche parlava in quel medesimo periodo di tempo di passione morale Don Primo Mazzolari, ricordando come spesso i sacerdoti precedessero nella sofferenza e nella morte i loro assistiti.
La popolazione partecipa alla Resistenza
La resistenza, oltre che opposizione armata, è stata un reticolo di azioni e di comportamenti che ha coinvolto la grande maggioranza della popolazione, nelle città e nelle campagne; e ciò spiega le centinaia di feroci e indiscriminate vendette contro civili inermi, da parte dei tedeschi e dei militi della RSI. Basterà ricordare preti martiri sui quali è concluso o in corso il percorso di beatificazione; come don Giovanni Fornasini, don Ferdinando Casagrande, don Ubaldo Marchiori a Marzabotto, e con loro – anch’essi decorati – don Aldo Moretti in Veneto, don Pietro Cortiula in Friuli, don Giovanni Battista Bobbio in Liguria, i dodici certosini dell’Abbazia di Farneta, il francescano P. Placido Cortese. E, per tutti, le parole di don Aldo Mei (anche lui medaglia d’argento e “giusto delle nazioni”), fucilato a Lucca nell’agosto 1944: muoio, scrive, “… 1° per aver protetto e nascosto un giovane di cui volevo salvare l’anima. 2° per aver amministrato i sacramenti ai partigiani, e cioè aver fatto il prete… Muoio travolto dalla tenebrosa bufera dell’odio io che non ho voluto vivere che per l’amore!…”.
La bufera dell’odio scatenata dai nazisti
Questa “bufera dell’odio” scatenata dal nazismo ebbe purtroppo altre conseguenze legate non alla Resistenza ma a fanatismi politici e vendette private, coperte da motivi ideologici, con l’assassinio di oltre un centinaio di sacerdoti. Ricordiamo Rolando Rivi, un seminarista quattordicenne che, nell’aprile del ’45, in provincia di Reggio Emilia fu ucciso a freddo da un gruppo di partigiani comunisti con l’accusa – rivelatasi falsa – di essere una spia, ma in verità soltanto perché indossava la tonaca (il suo carnefice avrebbe detto: “Domani, un prete di meno”). Papa Francesco ne ha riconosciuto il martirio, con la beatificazione in ottobre. Paradossalmente, come santo della Resistenza, che era appunto quella dei “ribelli per amore” dei combattenti cristiani.
(Angelo Paoluzi)
3.
VALERIO VOLPINI POETA CIVILE
di Gastone Mosci
La poesia domina l’impegno letterario di Valerio Volpini ventenne (1923-2000), la poesia delle prime sperimentazioni creative che si legano al periodo della Resistenza (1943-44) e della sua successiva vita universitaria (1945-47). E’ l’epoca dello studio, della lettura e dell’inizio della scrittura: i due momenti procedono di pari passo. Il dramma della lotta partigiana con le vicende della guerra e con la conquista visibile della libertà e del riconoscimento dei valori dell’uomo, vale a dire la presa di coscienza dell’umanità che si fa sensibile ed acquista una dimensione politica. I suoi testi pubblicati ma rimasti finora ai margini sono due: nel 1947 la cartella d’arte, stampata in proprio, “Undici poesie di Valerio Volpini / Undici incisioni di Arnaldo Battistoni”, e nel 1949 il quaderno di poesia, “Barbanera”, con la presentazione di Carlo Bo (1911-2001) ed una acquaforte di Arnaldo Battistoni (1921-1990) nelle edizioni della Scuola del Libro di Urbino.
Volpini era amico del suo concittadino Battistoni, studente alla Scuola del Libro, Carlo Bo era il relatore della sua tesi di laurea sulla poesia di Paul Claudel. Volpini a Urbino frequentava il Magistero, materie letterarie, studiava la letteratura, Battistoni seguiva le lezioni del suo maestro Leonardo Castellani nelle aule del Giardino d’Inverno del Palazzo Ducale, dove Volpini andava spesso a trovare l’amico e il suo maestro. I due fanesi organizzarono la loro collaborazione, la loro prima pubblicazione: il primo con le poesie, l’altro con le incisioni e il progetto della cartella. Erano entrambi molto impegnati, perché portavano nel loro lavoro artistico il cumulo della loro giovane esperienza di vita, molto concreta e significativa: Valerio lo spirito e la fatica della Resistenza e Arnaldo la sua passione per il disegno e la calcografia.
Volpini, Battistoni, Bo, Morandi, Castellani
Bo scrive nella presentazione a “Barbanera” che Volpini ha un “animo sensibile” e che ama la letteratura, che il suo mondo poetico propende verso l’amore e la confessione con al centro la sua città, il paesaggio del mare e delle colline, nel segno della grande attrazione montaliana. Dice inoltre: non ha dato spazio a “improvvisazioni della fantasia”, la sua è una “pagina di diario figurata”, che appartiene alla grande tradizione poetica fiorentina. Bo ha scherzato aggiungendo un pizzico d’ironia: quando ci sono grandi poeti non può mancare il manierismo. Volpini ha chiuso con questo quaderno il mestiere di poeta ma ha dato inizio ad una fortunata stagione di curatore di autorevoli antologie: “Antologia della poesia religiosa italiana contemporanea” (1952), con E.F.Acrocca “Antologia poetica delle Resistenza italiana” (1955), “Prosatori cattolici” (1957), “La preghiera nella poesia italiana” (1969). L’approfondimento critico è interessante ed è stato oggetto di alcuni suoi corsi universitari a Urbino. Per entrare nel contesto della sua opera poetica propongo subito la lettura di “Canzone per G*”, per Gabriella con un ritratto di Battistoni, una incisione dal tratteggio compiacente.
CANZONE PER G*
Perderti è più dolce; è saperti sognata
nel breve spazio di uno sguardo incurante
intenso nella sua finzione.
La conquista – forse tu l’indovini –
dà la quiete desiderata
che la memoria rattiene ispirata
da un soffio di delusa tentazione.
Il sapore delle parole che non dico
vela tutta una vita che può vincere il tempo
e la banalità veste irrequieta
nel groviglio del mondo;
se appena un volo ne ascoltassi
andrebbe perduta
la statura d’angelo che ti dono.
Perché non saprai quale desiderio
può l’espressa armonia
di un tuo gesto incurante (il passo morbido
spinto senza lode nel sentiero del mio candore
la sparsa carezza della mano
che coglie nel cavo i capelli).
Resta il punto obbligato degli occhi
e la solitudine del viso
misteri dedicati all’evasione del paradiso
alla verità che non posso fingere.
Volpini e Battistoni realizzano nel 1947 – undici poesie e undici incisioni – una plaquette originale nella confezione, di richiamo nei testi poetici, di particolare qualità nelle stampe calcografiche, con poesie scritte fra il 1944 e il 1947 all’insegna dell’aforisma di Paul Valéry [“Le vent se lève…] “…il faut tenter de vivre”. E’ la raccomandazione del grande poeta per giungere alla creazione e lo stimolo dell’interpretazione di Carlo Bo di esercitare la responsabilità dello scrittore. Si tratta d’una edizione d’arte con una confezione convincente, cm. 35×21, di trenta esemplari numerati, carta paglia, una poesia e una grafica nello stesso foglio, realizzata con il torchio a stella della scuola, con la notizia che alcune poesie sono uscite nelle riviste il “Gallo” di Genova e “Ricerca” di Roma, la pubblicazione genovese di Nando Fabro (genn. 1946-1976) e la rivista nazionale della Fuci. In Volpini emergono due indirizzi: la poesia d’amore, “Canto per G*”, Gabriella, la sua ragazza, poi moglie, un testo d’ironia e di passione, e la poesia della Resistenza, “Ricordo”, dedicata al martire Giannetto Dini, che abbiamo preso come simbolo del Festival Digitale “Valerio Volpini e la Resistenza” (Fanocittà www.fanocitta.it luglio-agosto 2013). Dini è un giovane di 17 anni, catturato in un conflitto a fuoco nell’Appennino, portato lontano da Fano e fucilato barbaramente dai fascisti. Le altre poesie sono occasioni legate al paesaggio, creazioni di una forte intensità – specialmente alla lettura settant’anni dopo – anche perché ispirano l’artista che le accompagna con incisioni profonde, nuove nei grigi, di ricerca fra Morandi e Castellani, di un giovane presto alla Biennale di Venezia con altri incisori urbinati. Alcuni testi della prima pubblicazione vengono riproposti nella seconda: sono sei, per la maggior parte testi brevi (“Canzone per G*”, “Fiaba”, “Tramontana”, “Casa di campagna”, “Fantasmi”, “Barche al meriggio”), un gruppetto d’ambiente, Pleiadi luminose con le intense acqueforti d’accompagno. Aggiungo una nota: la poesia “Il sorbo nell’uliveta” è accompagnata da una incisione che piaceva molto a Morandi, ha fatto sapere Battistoni in un appunto all’amico poeta; l’ultima della plaquette, “Assisi”, è dedicata a Leopoldo Elia nel passaggio del fronte nella città di Francesco per il raduno di commiato nel territorio umbro-marchigiano della Resistenza.
RICORDO
a Giannetto Dini
fucilato il 1° Aprile del 1944
Ancora chiedo se il tuo sorriso
era la nostra immagine segreta
d’uomini spersi sull’arcobaleno del mondo.
Crocifiggerci di sguardi biechi
sui crinali fra neve e vento
era l’indicibile agonia e non la festa dei fantasmi
nelle fughe o nel rosso degli scoppi.
Spaziavamo di pensieri ogni parola
che velasse le soglie del nostro “amare”
bruciato senza fiamma
su disperati turiboli di visioni.
Al nostro patire alla sorpresa di trovarci soli
dicevamo quella tremenda voce.
Max Drago Serjosa Giani…
la cantilena dei nomi ritorna
…forse ancora chiediamo
se i tuoi occhi avessero la luce del mondo.
I testi poetici della cartella, che è importante per la storia dell’editoria d’arte, è nel complesso poesia della Resistenza, è una proposta d’umanità, poesia-canto-immagine, dove l’ambiente partecipa ad una consapevolezza esistenziale e di lotta. In ogni caso l’opera si allinea alle edizioni d’arte della Scuola del Libro, che già all’epoca faceva scuola in campo nazionale. Volpini fa capire che la poesia della Resistenza non è sempre poesia di lotta e di sangue, ma anche di amore per la natura, per il paesaggio che è un bene irrinunciabile come la libertà, il dialogo, l’amore dei “ribelli per amore” e l’amore di chi ama la propria donna.
Barbanera
“Barbanera” contiene 26 titoli del 1944-1947, epoca della lotta in montagna e degli studi universitari con Carlo Bo, e coglie il vissuto della stagione giovanile e il dramma storico della sua generazione. Il primo testo è programmatico fra tradizione giocosa, eredità leopardiana e la situazione della guerra.
“Barbanera di Foligno…
mette l’acqua quando piove, tira vento quando tira
Barbanera di Foligno… “
Dice banali previsioni questo grido
del venditore d’almanacchi
e cela il dolore degli uomini
vera sostanza del tempo che dipana.
Il poeta vuole annunciare una vita nuova al centro della quale domina la figura dell’uomo nella situazione del dolore, nella vicenda della guerra, come “I morti” uno degli ultimi testi. Ne fa cenno, ed è già programma poetico, ma va detto che la poesia che segue, “Il lago”, è un luogo della vita partigiana rappresentato anche dal gioco dei piccoli e dall’eco dell’Adriatico. La lettura di Carlo Bo si svolge su vari fronti, indugia sulle attenzioni femminili, ma in Volpini poeta dominano i grandi appuntamenti: l’amore, la morte, la vita. I riferimenti alla giovinezza, ai volti femminili, ai pensieri di luoghi e di incontri, alludono ai momenti di lotta: il ricordo del dolore, la violenza che si organizza, i desideri non appagati rappresentano la tessitura della guerra in montagna. Volpini procede nella “memoria evocata”, nella “pagina di diario figurata”, scrive Carlo Bo, con domande inquiete – ad esempio nel testo “Morte”: “Mia vita non perdermi, la luce è la prova / del fuoco fatuo che segue i lamenti”.
Il dato più giovanile e più squillante che accompagna le riflessioni di quel mondo di disagio e di pericolo riguarda il mondo della donna con le poesie “Ragazza di Montaperti”, “Due poesie per un’adolescente”, “Due strade divide il fiume”, “Tre ricordi”. Le due poesie, “Questa pace” e “Gridi”, sfiorano l’agonia del martirio e la disperazione dell’incubo. Poi, nel gruppo delle composizioni d’ambiente, già edite in “Undici poesie…”, il paesaggio di montagna, le immagini del mare, la vita di campagna, segnalano che anche nella lotta partigiana possono riemergere richiami sereni che animano l’esistenza. In particolare “Fantasmi”, dedicata a Cesare Moreschini, un mitico personaggio senigalliese, direttore della Federiciana di Fano, nell’epoca della guerra, presenta la condizione incerta del momento, del desiderio che si agita, dell’animo turbato.
FANTASMI
per Cesare Moreschini
Ubriacati fantasmi
la vostra sera
è questa desolata solitudine
di canti d’adolescenti
sparse pei campi.
Vi traggo come immagini vive
sul filo dell’eco e vi accosto
al mio nitido desiderio.
Ma non tutto è dramma e inquietudine, molto è invece fiducia e stupore, lo stupore che aiuta il pensiero. Ne raccolgo i segnali in tre rapide visioni, che sembrano racconti brevi, l’inizio di un nuovo itinerario: il luogo della preghiera, l’aspirazione dopo la battaglia, la scena estiva dei ragazzi di città.
SOPRA MONTEGIOVE
Alte e luminose due nuvole cavalcano spaurite
l’azzurro grande del cielo
…le accompagna un angelo invisibile
e le tenta il vento per guastare
la loro morbida luce in filo di nebbia.
BUIA PACE
Buia pace ora speriamo dal cielo.
Nel cielo si spengono le voci
degli uomini attardati sugli usci
paurosi della vita che va
e di tanto dolore che resta.
RAGAZZI
Scalzi ragazzi ragionano seri
sulla fine del mondo; hanno il petto
decorato con tappi variopinti di bottiglie
e si spargono per le polverose vie
della periferia in cerca di ramarri da sacrificare
alla loro incerta sete di vendette.
L’ultima parte del quaderno di Volpini è dedicato a G.: da una “Vecchia lettera” di lontananza e di tormento alle canzoni di passione e di teatro, del “passo morbido” e delle parole come faville (“Due canzoni per G.”) fino al “Mercoledì delle Ceneri”, che è una nuova nascita, un ricominciare. Ma nell’orizzonte c’è “La città”, Fano, che va ricostruita, dal lido e dalla sassonia con il vento del mare e nella piatta morfologia della “barca capovolta”, ma ciò che conta è la vita, “la voce dei vivi”, una rinnovata città fortificata dalla speranza – la gente organizza la speranza e i luoghi sprigionano luci nuove – pur in una forma di sospensione del giudizio di fronte a un gruppo di ragazzi che sembrano preferire il gioco chiassoso della guerra: “colla voce fanno il verso delle mitragliatrici / ignaro presagio di chissà quali / vite future…”. Eppure il tema della città è un canto di fiducia fino a quella chiusura sospetta, amara e pessimista del giovane poeta che sa valutare l’intensità del suo canto e della sua testimonianza, perché “Invece sui selciati / si è lavato il sangue…”. Ecco una strofa di grande partecipazione.
A mattino a vespero nascono
tocchi di campane – le vie si popolano
così per un mortorio
così per un carnevale o una rivoluzione.
Gli uomini parlano con pudore
le donne agitano le braccia
gridano d’odio e di piacere.
(Gastone Mosci)