VALERIO VOLPINI ACQUAFORTE DI RAIMONDO ROSSI

11. POST FESTIVAL DIGITALE “VALERIO VOLPINI E LA RESISTENZA” 7 marzo 2014

in Festival Digitale Valerio Volpini e la Resistenza - Fanocittà

11. POST FESTIVAL DIGITALE “VALERIO VOLPINI E LA RESISTENZA”
Appendice Festival Digitale “Valerio Volpini e la Resistenza” – 7 marzo 2014

  VALERIO VOLPINI ACQUAFORTE DI RAIMONDO ROSSI

Raimondo Rossi, “Valerio Volpini”, acquaforte, mm. 60×100, 2000, copertina del volume: “Valerio Volpini. La sua cultura, la sua umanità e la sue fede”, Circolo Culturale Jacques Maritain, 2001).

 

1.

LETTERATURA & RESISTENZA

di Valerio Volpini

Il cinquantesimo della Liberazione ha rinnovato il discorso su ciò che è stata la Resistenza: non poteva essere diversamente. La pietà comune per la comune sofferenza e i lutti che hanno colpito le famiglie italiane sono fuori discussione; a me pare che il problema sia stato ampiamente risolto da molti anni per l’anima gentile del popolo italiano e la civiltà delle leggi repubblicane. . La pietà, che era “morta” nell’asprezza della lotta, risorse presto.
Fra i molti interventi, non si è quasi fatto cenno a quella che chiamerei la letteratura sulla Resistenza nelle sue forme specifiche: poesia, narrativa e memorialistica. E’ un capitolo che, come gli altri, è passato in mano agli storici e che, se pur non molto ampio, è di alto livello, indispensabile per andare al cuore degli avvenimenti.

Una caratteristica della letteratura resistenziale italiana è di essere nata quasi sempre “dopo”, come ripensamento e nel suggerimento della memoria. Ciò è dovuto al periodo relativamente breve, mentre in altri Paesi d’Europa (Francia, Paesi Bassi eccetera)c’è stato persino il tempo per organizzare un’editoria “alla macchia” che diffuse pagine di importanti scrittori (famose in Francia le Editions de Minuit). Fanno eccezione alcune poesie d Gatto, di Quasimodo, Ungaretti e Caproni. Ciò non toglie i meriti oggettivi.

 

Ho rinnovato questa considerazione leggendo “Appunti partigiani” (Einaudi 1995) di Beppe Fenoglio che nel manoscritto portano le date 1944-45, ma Lorenzo Mondo (che ha curato l’edizione, così come ha curato il capolavoro, e sicuramente capolavoro della narrativa italiana sulla Resistenza, “Il partigiano Johnny”) pensa che la stesura sia stata fatta un anno dopo la fine della guerra. Negli “Appunti…” c’è “in nuce” tutta la narrativa fenogliana ed emerge quella sofferenza e pietà per gli uomini che non esclude la descrizione della violenza. Il segno del tempo è offerto dalle poche pagine (un’ottantina) con straordinaria intensità, tanto che basterebbero da sole a fare uno scrittore e coprire una testimonianza.

Una cronaca della “guerra non crudele” e del “nemico buono” la si ritrova nello struggente racconto-ricostruzione di Nuto Revelli, “Il disperso di Marburg” (Einaudi 1995). Tolgo dalla banda editoriale:
“Nella primavera del ’44 un militare tedesco usciva a cavallo tutte le mattine dalla sua caserma in provincia di Cuneo e girava per le campagne, parlava coi bambini, offriva sigari ai contadini”.

 

Revelli, quando conobbe la “leggenda”, volle sapere chi fosse il “cavaliere solitario”. Il procedere della ricerca e i dati conseguenti formano il bellissimo racconto con un motivo costante nella narrativa sulla Resistenza: il nemico che è uomo come te, il nemico che non sa odiare, il nemico forse innocente…

 

Un esempio di queste motivazioni era stato dato nel “Silenzio del mare” di Vercors e, da noi in Italia, dal “Racconto in uno specchio” (pubblicato da Vallecchio nel ’50) di Grazia Maria Checchi: ho motivo di pensare che con quel bel racconto abbia iniziato e concluso la sua attività di scrittrice.

 

Si può concludere che poesia, narrativa e cronache legate alla Resistenza sono una forte metafora dell’umanesimo che non si perde.

 

1955

Valerio Volpini

(in “Famiglia Cristiana“, 22/1995)

 

2.

LA PACE FRA GLI UOMINI: NE SONO CAPACI?

di Aldo Deli

 

La prima bomba atomica fu lanciata il 6 agosto 1945 sulla città giapponese di Hiroshima: quella data è ricordata da pochi. Allora molti plaudirono perché la bomba atomica praticamente poneva fine alla sanguinosa seconda guerra mondiale. Ricordo che solo “L’Osservatore Romano” prese le dovute distanze da quell’orribile ordigno.

 

Erano le otto e un quarto del mattino e le sirene dell’allarme nemmeno suonarono perché solo due aerei statunitensi volavano sopra la città di Hiroshima abituata a vedere sul proprio cielo grossi stormi di velivoli. Poi qualcosa si staccò da uno degli aerei e giunto a qualche centinaia di metri dal suolo scoppiò e come un lampo abbagliante investì la città. Era entrata nella storia la bomba atomica: un nuovo potente strumento di morte si trovava nelle mani dell’uomo.

 

Morirono all’istante 71.000 persone; le case presero fuoco; verso le quattro del pomeriggio l’evaporazione prodotta da gigantesco incendio si trasformò in torrenziale pioggia. Una moltitudine di urlanti ustionati aveva cercato illusorio rimedio gettandosi nell’acqua dei canali. Solo allora arrivarono i primi soccorsi: erano i gesuiti (ma ch lo sa?) che abitavano in una vicina collina; tra essi c’era padre Pedro Arrupe, destinato a diventare Generale della Compagnia di Gesù. Di loro parlò poi con ammirazione la relazione giapponese.

 

Mi sembra opportuno aggiungere quanto su quel tragico avvenimento scrisse Valerio Volpini attingendo da Robert Jungk che aveva avuto un colloquio con uno dei pochi superstiti di quel tragico sei agosto. Si chiamava Kazuo e quando scoppiò la bomba aveva quattordici anni. Quel ragazzo nove giorni dopo lo scoppio e la scomparsa di Hiroshima gridando come un pazzo “tutti gli uomini sono degli imbecilli (Otona, Wa Bo-ka) fece a pezzi ciò che aveva di più caro: il suo libro di lettura. Dopo quello che aveva visto a che serviva pensare e sapere?

La scena, evocata da Volpini, ha valore anche per noi che predi chiamo la pace fra gli uomini, ma essi ne sono capaci?

2007

Aldo Deli

(da ” I merli di Fano“, a cura di Enzo Uguccioni, Fondazione Cassa di Risparmio di Fano 2008)