17. POST FESTIVAL DIGITALE “VALERIO VOLPINI E LA RESISTENZA”
1.
UN’ACCUSA CHE NON MERITO
di Valerio Volpini
Fano. Un anonimo lettore mi scrive, anche a nome di altri anziani, un centinaio di righe per coprirmi d’improperi con l’accusa di aver infangato la Resistenza e di non sapere quello che è stata per il nostro Paese. Il mio duro censore assicura che ha vissuto la rivolta al fascismo e che è stato un perseguitato politico e poco meno di un eroe. Non ho ragione di dubitare della sua autoesaltazione ma si vede che dell’antico coraggio con gli anni non gli resta neanche un briciolo per presentarsi con nome, cognome e indirizzo. Così lo avrei potuto ragguagliare.
So benissimo quali sono i significati dell’opposizione al fascismo e della Resistenza e della guerra di Liberazione. Non voglio assolutamente passare per un coraggioso e mezzo eroe, ma si dà il caso che, prima ancora della caduta del fascismo, un ragazzo dell’Azione Cattolica non stava in linea con il regime e che successivamente finì fra i partigiani (incredibilmente a comandare un distaccamento) e poi nell’esercito di Liberazione (incredibilmente nel IX reparto d’assalto “Col. Moschin”) ha fatto del suo meglio confessando che ricorda ancora (e che anzi non lo dimenticherà mai, dovesse campare mill’anni) tante paure e l’amaro dolore per i caduti.
Ripeto, niente di eroico ma non accetto insulti che mi facciano passare per un nostalgico fascista così come non ho mai accettato di passare per un pesce rosso nell’acquasanta.
(in “Famiglia Cristiana” n. 33/1993)
Valerio Volpini
2.
ITALO MANCINI, “GENTE DI SCHIETI”
“Gente di Schieti”, edito nei Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche (104, luglio 2011), a cura di Sergio Pretelli, è un’opera postuma di due autori, Italo Mancini e Ferriero Corbucci, nati a Schieti, che raccontano alcuni aspetti della vita di paese, i personaggi della quotidianità da parte di don Italo e l’ambiente antifascista, dei minatori e delle vicende della Resistenza da parte di Ferriero. Il volumetto è stato pubblicato per iniziativa del Centro socio-culturale “Don Italo Mancini” di Schieti.
Per seguire alcuni aspetti dell’amicizia di Italo Mancini con Valerio Volpini e restare legati al tema del Festival Digitale, facciamo riferimento al testo “Nel mio paese” ed al successivo “Chi sono”. Don Italo Mancini ritornerà nei prossimi servizi, a lungo.
NEL MIO PAESE
di Italo Mancini
La forza di queste pagine non è affidata all’invenzione e neppure al linguaggio ma al quantum di realtà e di popolo che mi riuscirà di esprimere. Potrò essere tanto falso da dire che questo paese non ha un nome e che questi brandelli biografici sono stati inventati?
No|
Il paese c’è e si chiama Schieti, il mio paese, e c’è anche l’uomo che ha vissuto cose, uno che mangia, beve e veste panni.
(“Gente di Schieti“, p. 19)
CHI SONO
di Italo Mancini
Sono nato il 4 marzo del 1925. Se volessimo dare ascolto ai segni zodiacali, dovrei indicare subito, come fondo della mia natura, una dualità fra aspetti opposti e talora contradditori, di cui il mio travaglio filosofico e culturale ha cercato in ogni modo di comporre irriducibili opposizioni. In maniera molto sintetica, direi che questa dualità di è imperniata soprattutto in una insonne, dopia fedeltà: fedeltà nel mondo, alla terra, ai suoi valori, alla sua cultura; e fedeltà alla teologia, al mondo e alla signoria di Dio, ai valori e alle forme teologiche, a un fare di Dio, insomma, che si accompagno a un fare dell’uomo.
In un paese di “casanti”
Un altro tratto della mia personalità mi è stato dato dal paese in cui sono nato: si tratta di una piccola frazione del comune di Urbino che ha nome Schieti. Era un paese di “casanti”, ossia di gente venuta dai campi, che mise su casa in proprio e cercava il lavoro nelle miniere, e quindi nell’emigrazione e nelle attività a ridosso dei campi, strappando dalla gleba un po’ di grano, un po’ d’uva, un po’ di foraggio, di fieno, di lupinella, che servisse a svernare, a attraversare i lunghi inverni, perché d’estate, come gli uccelli, ci si arrangiava nei campi.
Le tradizioni politiche
Un paese, quello di Schieti, di tradizioni anarchiche, socialiste e, dopo il ’17, comuniste, che fu sempre un osso duro per il fascismo, restio ad ogni forma di proselitismo fascista e che, nonostante i vari segretari federali che imponevano la divisa, che per altro nessuno portava, e imponevano la tessera, pena il pane, e imponevano altre cose di fronte alle quali la gente era sempre ribelle, pronta a rintanarsi o ad essere rintanata nel carcere all’arrivo di qualche personalità di governo nel luogo, con quello che si chiama il fermo di polizia; il paese, dicevo, mi ha dato il senso delle lotte operaie, delle resistenze civili, e anche il senso di una maggiore dignità nella sinistra.
Mio padre e mia madre
Mio padre era un minatore e per circa trent’anni ha lavorato in molte miniere da capo a fondo l’Italia, immerso nei pozzi profondi e spesso tirato esanime a terra per effetto nocivo e micidiale delle poussières, le polveri tipiche del mondo minerario. Posso dire di lui che onorato la condizione della classe operaia, e ha mostrato in atto come può essere dignitosa e civile anche la gente comune. Mia madre, invece, era uscita dai campi, era figlia di contadini, e della gente dei campi portava la fantasia, l’ardimento, il cuore, insieme a quel realismo attento alle cose concrete,ai segni della natura e dei giorni: un realismo intriso di passione, che le permise di far sì che, nonostante l’indigenza grande, tutti e tre i figli potessero studiare, potessero trovare la parola per camminare nel mondo, secondo l’intuizione di don Lorenzo Milani che i poveri sono tali soprattutto perché non hanno la parola, non possono difendersi, non possono comunicare.
La patria sempre intravista e mai posseduta
Debbo a questi due onesti e umili genitori la scelta di campo, quella del sangue plebeo e contadino, il campo della gente che lavora, crea e così muove la storia; perché la storia come dice Ernst Bloch nelle ultime righe del suo “Principio Speranza”, è mossa e rimossa dalla sofferenza del creare, del lavorare, del produrre, dell’essere nella dignità prima ancora che nelle fasi economiche e produttive, sì che solo in questo modo apparirà quella patria sempre intravista e mai posseduta, la patria dei sogni dei fanciulli e dei sogni a occhi aperti della gente adulta nei grandi poemi dell’arte e nelle grandi imprese politiche.
Il modo di vivere a Schieti
Nelle ore perdute, nei ritagli di tempo, magari in viaggio su un treno, sto buttando giù delle pagine autobiografiche, ma che in qualche modo vogliono essere la storia delle lotte, delle figure, del modo di vivere del mio paese di Schieti, dagli anni trenta sino agli sconcerti e alle distruzioni che per noi, a ridosso della linea gotica, furono durissime durante l’ultimo, grande conflitto.
Dovrebbe emergere un contesto, e anche un orizzonte concreto, entro cui trovano significato e approfondimento anche le indagini apparentemente più astratte del mio ormai trentennale filosofare e del mio lavorare nel campo della cultura.
(in “Gente di Schieti“, pp.20-2)
Italo Mancini
3
Presentazione a Urbino il 17 aprile 2014 del romanzo “La radio nel pagliaio” (Guaraldi Editore) di Alberto Calavalle nella Sala della Provincia, un incontro illuminante della situazione bellica del 1944 nel territorio. Intervento partecipe di apertura di Tarcisio Porto, assessore all’ambiente della Provincia, conversazioni acute della docente Tiziana Mattioli e dello storico Sergio Pretelli, lettura di passi intensi della narrazione, dibattito incentrato sulla famiglia che vive il passaggio del fronte e sul racconto degli eventi bellici, e l’adesione allo spirito della Resistenza. Teniamo caldo il lavoro di Calavalle in questa epoca di commemorazioni. Ne vale la pena per la qualità del suo contributo che pone l’orizzonte della pacificazione. Pubblichiamo l’intervento di Sergio Pretelli.
IL LIBRO DI ALBERTO CALAVALLE: UN TASSELLO IMPORTANTE NELLA LETTERATURA DEL DOPOGUERRA
di Sergio Pretelli
Calavalle racconta gli anni del passaggio del Fronte: dal 1943 alla Liberazione, nei ricordi di un bimbo di 8 anni. Si inserisce in un filone letterario dominato dai romanzi di Italo Calvino e Alberto Moravia, per citare i più noti. Con una differenza sostanziale. Gli autori citati partivano da una presa di posizione ideologica e quindi di schieramento. Calavalle riporta fedelmente gli eventi di vita reale così come sono stati vissuti. Avvalorando le tesi dello storico Aurelio Lepre che ha scritto: “di ciò che avveniva nelle campagne si sapeva poco o niente”. Ora, con il libro di Calavalle si sa di più e si ha una conferma che la gente di campagna ha subìto e sopportato il peso della guerra ed aveva nel suo DNA il rifiuto della guerra. Tanto più la famiglia di Calavalle che aveva pagato, già con la prima guerra mondiale, una pesante perdita di affetti familiari, tanto è vero che, una costante della voce del nonno, è: “La guerra è una bestiaccia”.
La storiografia sulla guerra di liberazione o sulla guerra partigiana, è tuttora assai divisa. Alcuni storici (P. Milzà, G. Pansa) sono arrivati a sostenere che si è trattato addirittura di una guerra civile. Certo gli anni dal 1943 al 1945 hanno registrato anche un momento per la resa dei conti. Come è avvenuto con l’uccisione di Mussolini e con le vendette contro i gerarchi fascisti in vari paesi d’Italia, che emergono ancora al giorno d’oggi.
Del resto anche sull’uccisione del filosofo Giovanni Gentile si conoscono gli esecutori materiali, ma non si ha la documentazione sui mandanti. E chi sa tace. Nell’anniversario dell’omicidio, i giornali attuali, ne rievocano le vicende, l’atmosfera del tempo e la ritrosia o vigliaccheria dei mandanti ad uscire allo scoperto. Di fatto tutta la storiografia del secondo dopoguerra sulla guerra partigiana è stata un monopolio comunista. Andare contro corrente era difficile. La Democrazia Cristiana che era al governo, non prendeva posizione. Pur avendo in De Gasperi il perno della Liberazione e della ricostruzione del paese.
Si è detto che, nei rapporti internazionali, la Resistenza era un capitale spendibile per l’Italia nelle Relazioni con le potenze vincitrici. Da ricordare che l’Italia fino al 1943 era stata la grande alleata di Hitler. Pochi ed isolati i cattolici che hanno avuto il coraggio e la dignità di rivendicare il loro contributo e quello compartecipato dei cattolici nella guerra partigiana. Tra essi, per stare nella nostra zona, Valerio Volpini, Aldo Deli, Egidio Mengacci.
Il libro di Calavalle conferma con una descrizione lineare e da grande letteratura, la presa di posizione di Sergio Romano, editorialista del “Corriere della Sera”, che ha più volte ribadito, anche negli scritti attuali, che “la maggioranza degli Italiani non si schierò nella lotta fra partigiani e fascisti”.
Il comportamento della famiglia Calavalle che si è trovata in una linea calda, come quella della Linea Gotica, rappresenta il modello della famiglia italiana nel periodo bellico con l’alto senso umanitario che gli deriva in massima parte, o nella sua totalità, dalla fede, dall’educazione religiosa e dal sacrificio e dalla dignità del lavoro. Doti che si apprendono in famiglia. Ed in quella dell’autore sono a confronto ed in successione quattro generazioni: bisnonni, nonni, genitori e figli, descritte con alto profilo letterario e con misurato equilibrio.
Il titolo “La radio nel pagliaio” deriva dall’aver nascosto la radio di casa in un pagliaio per evitarne il furto e forse più (è una illazione mia) per timore di essere percepiti come parte dello schieramento resistente. Anche la mia famiglia, sfollata nel podere di Ca’ Girella di Montesoffio, aveva usato il pagliaio per nascondere bicicletta, suppellettili e da usare come rifugio, come è avvenuto, al momento del passaggio del fronte” dei tedeschi in ritirata sulla strada di San Giovanni in Pozzuolo verso le Capute di Urbania.
Sergio Pretelli