Valerio Volpini
Valerio Volpini

18. POST FESTIVAL DIGITALE “VALERIO VOLPINI E LA RESISTENZA” 25 aprile 2014

in Festival Digitale Valerio Volpini e la Resistenza - Fanocittà

18. POST FESTIVAL DIGITALE “VALERIO VOLPINI E LA RESISTENZA”

Citeroni Volpini Montesanto Tiberi 

1.

PENSARE IL 25 APRILE

Riproponiamo un frammento della scheda biografica di Valerio Volpini, nato a Rosciano di Fano il 29 novembre 1923 da una famiglia di mezzadri. Sino alle soglie dell’adolescenza ha vissuto da contadino, sino a quando la propria famiglia si è trasferita in città, il padre lavorando da manovale e la madre sa sarta. Volpini ha sempre considerato il suo primo ambiente familiare, contadino-operaio, decisivo nella propria formazione così come l’appartenenza all’Azione Cattolica, dalla “Gioventù” alla Fuci e al Movimento Laureati. Ha partecipato alla Resistenza comandando un distaccamento partigiano e poi alla guerra di Liberazione nel IX reparto d’assalto. In quel periodo si è iscritto alla Democrazia Cristiana che ha rappresentato per molti anni nel Consiglio comunale e, dal 1970 al 1975, al Consiglio regionale delle Marche, presidente della commissione scuola e cultura. Ha cominciato ad insegnare nell’autunno del 1945 e negli stessi mesi ha iniziato gli esami del corso di materie letterarie nella facoltà di Magistero dell’Università di Urbino laureandosi all’inizio del 1947 con una tesi su Paul Claudel discussa con Carlo Bo. Sposato nel 1951 ha tre figli e molti nipoti. Titolare d’italiano e storia nell’Istituto Tecnico Comm. Battisti, ha svolto alcuni corsi di letteratura comparata nell’Università di Urbino, dove per oltre dieci anni, è stato presidente della Scuola del Libro. Ha lasciato l’insegnamento nel 1970. Direttore della rivista “Il Leopardi” 1974-1975, direttore de “L’Osservatore Romano” 1978-1984.

 

2.

LA NOSTRA GIOVINEZZA

di Valerio Volpini

Certi avvenimenti in una comunità o nei popoli restano per il loro valore d’esperienza sociale e spirituale alle radici delle generazioni, incidono nella storia delle persone che in un modo o nell’altro sono stati i protagonisti; lasciano un segno nella coscienza come una ferita la cicatrice, ed è un segno che si porta nel tempo anche nel suo valore di sentimento mentre nel suo significato umano è passato alla storia, cioè nella cultura per la civiltà ed il progresso futuro.

E’ dunque per un duplice motivo che siamo legati alla Resistenza: per averne fatto parte e perché, indipendentemente da questa ragione, oggi sappiamo l’estremo valore che ha avuto la lotta contro i fascismi, non appena come episodio di valore civile ma come decisiva vittoria dello spirito di una civiltà contro una mostruosa prepotenza.

Solo i perversi o gli imbecilli, con il callo degli stivali, possono pensare senza inorridire a ciò che avrebbe potuto significare per il nostro Paese e per l’Europa la vittoria di coloro che freddamente potevano pensare allo sterminio di milioni di persone, ad una “soluzione finale” che avrebbe bruciato popoli interi; alla vittoria insomma di coloro che avevano già compiuto uno sterminio che per sempre nel futuro farà vedere il nostro tempo macchiato da una folta barbarie degradante l’uomo alla bestia.

 

La Resistenza è stata il nostro “umanesimo”

La Resistenza è stata per la nostra generazione – e con questo ci riferiamo a tutti gli uomini, a coloro che hanno vissuto la lotta al termine della vita, nella speranza del futuro per gli altri, e ai giovanissimi che combattono prima di tutto per il proprio futuro – il momento culminante di una meditazione per la conquista di una umanità completa e non travisata, lo strumento per sentirci “persona”, aperti ed impegnati nella costruzione della libertà intesa nelle forme più concrete di amore e di giustizia, di pace e di dignità. E’ stata la nostra giovinezza, il nostro “umanesimo”, non secondo quella misura stolta e rozza che alla giovinezza attribuiva il fascismo, ma per la misura di coscienza e grandezza umana che da quella partecipazione sentivamo nascere. Non era un falso eroismo – quello della bravura nella violenza – ma la umile decisione che non si poteva fare altrimenti e che per tutti restava quella via per non finire; era l’eroismo di coloro che tenevano fede all’avvertimento evangelico del primato dello spirito, l’eroismo di coloro che difendevano un eroismo di pace e non di conquista.

 

Lettere dei condannati a morte della Resistenza

Mi tornano le parole di due giovanissimi riportate in quella nobilissima testimonianza delle “Lettere dei condannati a morte della Resistenza” che dovrebbe essere un breviario per la nostra condotta sociale: scrive lo studente sedicenne Henry Fertet, “Voglio una Francia libera e dei francesi felici. Non una Francia orgogliosa e prima nazione del mondo, ma una Francia lavoratrice, laboriosa e onesta”; e lo studente italiano diciannovenne Giacomo Ulivi, “Ricordate, siete uomini, avete il dovere, se il vostro istinto non vi spinge ad esercitare il diritto, di badare ai vostri interessi, di badare a quelli dei vostri figli, dei vostri cari. Avete mai pensato che nei prossimi mesi si deciderà il destino del nostro Paese, di noi stessi?”.

 

Con la Resistenza siamo diventati uomini

Con la Resistenza siamo diventati giovani, siamo diventati uomini perché al di sopra ed oltre il dolore della lotta noi decidevamo della speranza, cioè della possibilità di compiere l’opera nostra, secondo una vocazione, secondo la verità semplice e dimessa che la vita ci offre e non secondo una menzogna mortificante. Non c’è quindi un ricordo romantico di un’avventura tumultuosa da appendere nella nostra memoria (come nella parete più in vista della nostra casa uno di quei diplomi di combattente distribuiti quasi a forfait dai generali alleati) ma la responsabilità di una scelta che si è compiuta e che noi realizziamo continuamente nella misura appunto in cui restiamo fedeli alla nostra giovinezza, cioè alla realizzazione di quanto è vero e buono nel mondo nel quale siamo chiamati a vivere.

 

La Resistenza è carità sociale

In fondo, per questo, la Resistenza diventa anche un simbolo di adesione quotidiana alla carità sociale e di opposizione contro tutti gli immobilismi, le convenienze, le paure. Pensiamo che una responsabilità non si attacca ad un chiodo come un diploma da rispolverare appena per le pulizie della primavera.
24 aprile 1955

Valerio Volpini

 

Italo Mancini VI

 

3.

RESISTENZA E RESA

di Italo Mancini

Agli inizi dell’età moderna, quando l’Europa vedeva configurarsi l’assolutismo di Stato, fu coniato il termine “diritto alla resistenza” (John Locke). In anni recenti, il movimento della Reistenza è stato messp in onore. Rifarsi al concetto di Resistenza vuol dire rifarsi ad una categoria di valore. Eppure la resistenza da sola non significa il tutto della vita morale. Diventa un atteggiamento pericoloso e distruttivo, se non viene accompagnato da valori di obbedienza, di fedeltà e di resa. Resistere a tutto e sempre, con atteggiamento radicalmente ribellistico, è altrettanto pericoloso che essere sempre succubi, passivi e inginocchiati davanti al potere. Ma dove porre il confine tra obbedienza e resistenza, tra ribellione e accettazione, tra innovazione e fedeltà? Si può dare una regola, una legge per l’opportuno discernimento?

Intanto ha un suo valore la convinzione che non si può vivere, né biologicamente né moralmente, con uno solo dei due termini esclusivi, o sola ribellione o sola sottomissione. Provate a vivere con la sola sottomissione, mancando di quel camminare eretti e decisi, che anche la Bibbia esprime come segno della dignità dell’uomo. Polemizzando con il teologo Schleiermacher che aveva posto il segno distintivo della vera religione nel “sentimento della dipendenza”, Hegel ebbe facile il sarcasmo quando osservò che allora il cane deve dirsi il miglior cristiano, perché nessuno è più obbediente di lui. Vita da cani oppure vita tragicamente comica come quella di Sancio Pancia, l’eroe più inglorioso di una sottomissione senza riserva critica.

Non meno tragicamente comica e l’altra metà della verità. Quella di don Chisciotte, che combatte contro tutto, e non salva niente dell’esistente. Come Sancio era il simbolo della sottomissione allo stato puro, così don Chisciotte è il simbolo della ribellione allo stato puro. Entrambi falliti. La nostra cultura conosce casi di ribelli allo stato puro: Sade, per esempio; Nietzsche, per esempio; Ivan Karamazov, per esempio. Esprimono atteggiamenti seri della vita, eppure le loro terrificanti rotture con il normale sono state pagate al prezzo altissimo della schizofrenia.

Condannare queste cose è facile. Il loro eccesso è evidente. Più difficile è trovare la via di mezzo che ci salvi dalle follie degli estremismi. Se Dio avesse la voce cristallina di chi si fa udire sempre, e il suo adorabile Tu non entrasse nella storia attraverso i canali insignificanti del neutro destino, la cosa sarebbe stata facile. “Dio non ci viene sempre incontro col ‘Tu’, ma ‘ammutolisce’ nel neutro ‘esso'”, ha scritto Bonhoeffer, che al tema ha dedicato profonde meditazioni ed è stato lungamente tentato se rispondere sì oppure no alla uccisione violenta del Fuhrer. In queste condizioni risulta duro sapere quando si tratta del tu e del comando di Dio o quando invece si tratta di tutt’altro. Certo c’è la legge di Dio e copre campi dove la risposta è perentoria: i martiri ne furono testimoni. Per il resto non ci sono le leggi generali, ma un discernimento pensoso e responsabile che si affida a una coscienza sana e retta. “La fede richiede questo atteggiamento mobile, vivo” scrisse ancora Bonhoeffer in una lettera dal carcere del 12 febbraio 1944.

(in “Tre follie“, Camunia 1986, pp. 157-9)

Italo Mancini