Mattei ad Acqualagna

30. POST FESTIVAL DIGITALE “VALERIO VOLPINI E LA RESISTENZA” 25 luglio 2014

in Festival Digitale Valerio Volpini e la Resistenza - Fanocittà

30. POST FESTIVAL DIGITALE “VALERIO VOLPINI E LA RESISTENZA”

 

Mattei ad Acqualagna

LINEE DELLA POLITICA PERSEGUITA DALL’ENI PER IL RINNOVAMENTO ECONOMICO DEL PAESE

di Enrico Mattei

Le ombre e i silenzi di questa monumentale città, nella quale la vita universitaria nobilmente prosegue e sviluppa le splendide tradizioni rinascimentali, per me, che sono nato nel territorio urbinate evocano lontani, soavi ricordi; e mi rendono particolarmente caro l’odierno ritorno il quale, chiudendo come in parentesi una lunga assenza piena di esempi e di responsabilità, mi permette di collegare le remote aspirazioni della giovinezza con l’onore insigne che oggi mi viene concesso.

 

 

Un saluto al Ministro Giacinto Bosco

 

Rivolgo innanzitutto il mio saluto a Lei, Signor Ministro della Pubblica Istruzione, e credo che non potrei meglio esprimere la mia gratitudine per la Sua presenza in questa aula se non unendomi al sentimento unanime degli italiani per l’impulso da Lei dato alle scuole di ogni ordine e grado, dalle quali anche lo sviluppo delle industrie e del benessere economico attendono sicuri incentivi.

 

 

Un saluto al Magnifico Rettore Carlo Bo

 

Ringrazio Lei, Magnifico Rettore, così come esprimo la mia gratitudine a tutti i Chiarissimi Professori dell’Ateneo di Urbino che oggi mi ascoltano, ed accetto la laurea in Economia e Commercio che mi viene conferita, non tanto come una distinzione offerta personalmente a me, quanto come un simbolico riconoscimento della fede e dell’abnegazione delle molte migliaia di uomini che rendono attuali e prospere le attività che esercitiamo tutti insieme.

Prego Lei Signor Ministro, e prego il Corpo Accademico e tutti i presenti di concedermi una breve attenzione, affinché io possa esporre alcune linee per l’opera collettiva in cui è impegnata tutta la grande famiglia dell’ENI, così da giustificare in certo senso la mia odierna presenza in questo posto d’onore.

 

 

Alcune linee della politica dell’ENI

 

Dalla fine della guerra ad oggi, il prodotto lordo di quasi tutti i Paesi industriali del mondo, particolarmente di quelli europei, è aumentato con un tasso elevato di sviluppo, smentendo le fosche previsioni che molti economisti formularono durante l’ultimo decennio prebellico basandosi su una pessimistica valutazione dei risultati dell’attività economica di quel periodo.

Un confronto tra gli andamenti del prodotto lordo prima e dopo la guerra può essere istituito – non tenendo conto degli anni “eccezionali” del conflitto e della ricostruzione – tra il decennio 1930-39 e il decennio 1950-59. Limitandoci agli Stati Uniti e all’Europa occidentale, le differenze sono nettissime. Negli Stati Uniti il prodoto lordo, dopo esswere dimunuito nel 1931, incominciò a partire dal 1934, a risalire rapidamente, raggiungendo nel 1939 un livello leggermente superiore a quello del 1930, e corrispondente ad un aumento annuo medio, nel decennio, di circa l’1%.

 

 

Stati Uniti e Europa occidentale prima e dopo la guerra: l’Europa recupera

 

Nello stesso periodo, in Euroipa, si ebbe, con qualche notevole eccezione in più e in meno, un aumento medio annuo di circa il 2-3%. Negli “anni cinquanta” sia gli Stati Uniti sia l’Europa occidentale ha registrato un continuo aumento del reddito a un tasso medio annuo di circa 4,5%.

Anche i Italia la differenza tra la dinamica dei due periodi appare netta. Nel decennio 1930-39 il prodotto lordo nazionale aumentò a un tasso medio di circa 1,5% all’anno. Nel decennio 1950-59 l’economia italiana si è sviluppata al tasso medio di circa il 6% all’anno.

 

 

Nel decennio 1950-59 boom economico dell’Italia 6% di sviluppo ann.

 

Nel decennio prebellico, dunque, l’Italia, che già si trovava in netto ritardo rispetto agli altri Paesi industriali dell’Europa o nelccidentale, pur progredendo, continuò – in termini relativi – a perdere terreno. Nel decennio scorso esso ha annullato una parte notevole del suo ritardo storico, superando gli altri Paesi europei per quanto riguarda il tasso dello sviluppo economico.
Tra i due periodi considerati molte cose – che spiegano questa “miracolosa” ripresa – sono mutate nel nostro Paese. Sono migliorate le tecniche, è aumentata la popolazione, la struttura demogrqafica e sociale ha subito profonde modificazioni; ma, soprattutto, sono maturate nuove idee nel campo dell’economia, tra le quali riveste particolare importanza la concezione che attribuisce allo Stato le responsabilità del progresso economico nazionale.

 

 

La politica economica squilibrata dell’inizio del ‘900

 

La politica economica seguita dalla classe dirigente del nostro Paese tra le due guerre mondiali aggravò notevolmente le contraddizioni già esistenti nel precedente periodo di sviluppo dell’economia italiana. Sotto lo stimolo di un sistema di tariffe protezionistiche e grazie al consistente afflusso di capitali esteri, nonché all’impulso di forti commesse statali, l’industria italiana aveva conosciuto, fra la fine del secolo scorso e la prima guerra mondiale, un periodo di rapida espansione. Tuttavia, tale sviluppo si era concentrato su una area geografica limitata e le produzioni venivano ottenute a costi elevati, data la ristrettezza del mercato interno, e l’altro prezzo delle fonti di energia e delle materie prime di importazione. Ciò determinava, da una parte, uno squilibrio interno tra l’Italia del “triangolo industrial” e le altre zone della penisola, specie quelle del Mezzogiorno, abbandonate alla scarsa produttività di una agricoltura arretrata; uno squilibrio tra il livello dei prezzi interni e quello dei prezzi internazionali.

 

 

Il divario di condizioni

 

Dopo la prima guerra mondiale, divenne sempre più profondo il divario fra le condizioni economiche dell’Italia centromeridionale e quelle delle regioni nord-occidentali, nelle quali si venivano concentrando sempre più gli interessi dei gruppi industriali cresciuti all’ombra dei privilegi. La continuazione della politica protezionistica, esasperata poi dall’autarchia, aggravò la inefficienza competitiva dell’industria italiana sul mercato mondiale.

Mentre non si può negare che una certa misura di protezioni doganali e una certa concentrazione geografica degli investimenti fossero necessari all’avvio del processo di industrializzazione del nostro Paese, è indubio che il permanere in questa linea, portata alle sue estreme conseguenze autartiche, fu causa del fallimento della politica economica del regime fascista.

 

 

Uno spiraglio di politica industriale fra il 1922 e il 1929

 

E’ vero che nei primi anni del regime, dal 1922 al 1929, l’industria italiana conobbe grazie alle protezioni, ai contributi finanziari dello Stato, aggravi fiscali, al connubio fra alta finanza e grande industria, alla compressione dei salari – un nuovo periodo di prosperità con produzioni in rapida ascesa ed alti profitti. Ma nel decennio successivo, le contraddizioni di questo sviluppo che la grande crisi internazionale aveva fatto chiaramente emergere esplosero nei fallimenti e nei susseguenti salvataggi ad opera dello Stato, delle grandi namche nazionali e di una parte notevole della grande industria. Tutti i tentativi successivi di risanare di razionalizzare le strutture produttive della grande industria in Italia urtarono contro un ostacolo insormontabile, la ristrettezza del mercato che a sua volta favoriva una struttura monoipolistica dell’industria.

 

 

Ma la politica economica conservatrice blocca lo sviluppo

 

Le difficoltà in cui si dibatteva fra le due guerre l’economia italiana, frutto in gran parte di una politica economica conservatrice, vennero interpretate dall’idelogia ufficiale come la comseguenza di cause naturali. L’Italia, si dicdeva, era un Paese povero, perché dotato di scarse risorse, e ricco soltanto di braccia. Occorreva impiegare queste sue energie vitali per tentare di ottenere all’estero, con la espansione politica e, se necessario, militare, quelle ricchezze che la natura avara e l’altrui egoismo ci negavano.

 

 

Problema eccedenza manodopera

 

Il problema dell’eccedenza di manodopera, che l’Italia prefascista aveva accettato di risolvere attraverso l’emigrazione di massa, venne affrontato con una politica di cosiddetta “colonizzazione” e di mobilitazione bellica. Mentre sul terreno politico si creavano in tal modo le premesse di un disastro, sul terreno economico si distoglievano a fini imoproduttivi uomini e risorse che avrebbero potuto essere impiegati ai fini dello sviluppo.

 

 

Il quadro economico del dopoguerra

 

Il quadro economico del nostro dopoguerra è radicalmente cambiato. Dopo una rapida ricostruzione, l’Italia si è inoltrata in una fase di progresso che, sotto tutti gli aspetti, appare la più fortunata della sua storia economica.

Due scelte fondamentali di politica economica sono state – a mio avviso – determinanti per questa brillante ripresa.
La prima è la generosa accettazione della competizione internazionale che ha implicato il ripudio del protezionismo, la liberazione degli scambi, l’integrazione dell’economia italiana nel più vasto ambito di un mercato europeo in via di unificazione.

La seconda, successiva nel tempo, è la decisione di dare l’avvio al processo di sviluppo economico e industriale nelle zone più arretrate, con lo scopo di assorbire la disoccupazione e la sottouccopazione, e di sanare i contrasti ancora stridenti tra i livelli di reddito delle varie zone del territorrio nazionale.

 

 

Competizione internazionale e sviluppo economico e industriale

 

Con la prima scelta si otteneva l’ammodernamento dell’apparato industriale, alla cui espansione si aprivano i mercati mondiali; con la seconda si affrontava l’esigenza fondamentale dell’ampliamento del mercato interno, abbandonando l’alibi della nostra “povertà naturale”, per valorizzare le grandi risorse inutilizzate e prima fra tutte il lavoro.

Sono note le difficoltà e le restenze che è stato necessario superare perché la nostra economia accettasse queste “scelte” fondamentali. Sia la politica diliberazione degli scambi (e quella, successiva, di integrazine europea), sia la politica di sviluppo delle aree arretrate incontrarono la resistenza dei grossi interessi costituiti.

 

 

Economia moderna, dinamica e competitiva con la “impresa pubblica”

 

Sta di fatto – e questo è un punto fondamentale per una corretta valutazione delle forse che muovono oggi il nostro sistema economico – che l’iniziativa delle scelte e della loro applicazione è stata assunta – vorrei dire, in molti casi, imposta – dallo Stato. E – elemento fondamentale – questo intervento si è adeguato, in campo industriale, alle esigenze di una economia moderna, dinamica e competitiva, individuando nella “impresa pubblica” un preciso strumento a servizio della collettività. Insieme con altri pregiudizi, è crollato in Italia anche quello, vetusto, che volevala gestioni pubblica dell’industria immancsbilmente inefficiente e antieconomica, in confronto alla gestione privata sempre dinamica e competitiva. Ma non basta: questi ultimi quindici anni ci hanno insegnato come l’impresa pubblica industriale, pur adeuandosi perfettamente alla esigenze di una gestione economica, possa e debba anche agire per imprimerre una spinta al processo di sviluppo, nelle zone e nei settori che l’iniziativa privata ha trascurato, e per ristabilire coindizioni di concorrenza, là dove il gioco di interessi privati erige barriere a difesa di “riserve di caccia”

 

Enrico Mattei

(il testo verrà completato nei prossimi giorni su queste pagine web)