Valerio Volpini 1991
Valerio Volpini 1991

5. POST FESTIVAL DIGITALE “VALERIO VOLPINI E LA RESISTENZA” 24 gennaio 2014

in Festival Digitale Valerio Volpini e la Resistenza - Fanocittà

5. POST FESTIVAL DIGITALE “VALERIO VOLPINI E LA RESISTENZA”
Appendice Festival Digitale “Valerio Volpini e la Resistenza” – 24 gennaio 2014

Fano Campanile Vanvitelli 

Fano: La Piazza Maggiore (foto d’epoca)

dalla città di Fano raggiunsero le montagne di Cantiano i Comandanti: Dini, Isotti, Lombardozzi, Marchegiani, Pierpaoli, Volpini.

 

CANTIANO CI PROTEGGEVA

Nel 1943 la lotta partigiana comincia a Cantiano racconta Angelo Ceripa, partigiano combattente, nell’Appennino del Catria, perché quel paese ha un’antica tradizione antifascista. Il Comune di Cantiano e l’Anpi di Pesaro e Urbino nel 1998 pubblicano un libro di memorie, “è una raccolta di testimonianze di chi ha vissuto in prima persona la Resistenza nel nostro territorio”, scrive il sindaco Gino Traversini. “Il nostro entroterra, ogni nostra piccola città ha saputo opporre una resistenza al fascismo. Non solamente nel periodo che va dall’8 settembre 1943 sino al 1944, ma dagli esordi”, sottolinea Giovanni Bischi, presidente dell’Anpi: tutti insieme popolazione e contadini, e donne in particolare a Cantiano, 38 su 60 nella provincia, e Sandro Severi ricorda Agnese Bei. Tanti partigiani sono passati per il paese, gente di ogni cultura e fede politica nel nome della libertà, della giustizia, della pace e della democrazia. Ne scrivono anche don Lorenzo Bedeschi. Giorgio De Sabbata, Corrado Isotti, Claudio Cecchi, Giovanni Paruccini, Guglielmo Guglielmi. Anche Valerio Volpini attraversa quell’esperienza e racconta la sua storia personale nelle pagine che seguono: il freddo e la fame, poi la paura e la guerra. (Gastone Mosci)

 

1.

E’ COMINCIATO A CANTIANO

di Valerio Volpini

A Cantiano giunsi, dopo Natale, negli ultimi giorni del ’43. Dovette essere una giornata festiva perché il giovane compagno che mi aveva condotto a casa sua mi aveva festeggiato con un pranzo formidabile: una salsiccia con pane a volontà e vino. Dopo mi condusse all’osteria senza alcun riguardo della clandestinità: “Son tutti compagni che non parlano. Nessuno ti chiederà niente anche se lo dovessi conoscere”. Quel pomeriggio mi cominciò ad essere chiaro perché si cominciava proprio da Cantiano: i monti c’erano anche in molti altri posti…
La piccola città, il paese (detto per affetto) aveva maturato un radicale antifascismo per merito del proselitismo di alcuni comunisti poi esuli in Francia. Dopo l’8 settembre, anche i pochi che non erano comunisti non erano fascisti e perciò Cantiano era una città sicura. Era autocontrollata e questo lo capirono i comandanti dei reparti repubblichini accasermati a Fano, Pesaro e Urbino.

 

Da Fano a Cagli

Da Fano ero partito qualche giorno prima e mi aveva fatto il “ruolino di marcia” (meglio dovrei dire “di bicicletta”) Cesarin infaticabile organizzatore, casinista da parte sua, ma che sembrava divertirsi infilando (per se stesso, però) i rischi.
Ero in bicicletta e non certo tranquillo: “se mi fermano?”. Cesarin mi aveva detto di rispondere che ero uno “sfollato”.
Prima tappa a Villanova, sotto Montemaggiore, nella casa dove stava sfollato. Ugo con sorella e madre. La valigia poggiata sul manubrio era piena di calze e di maglie (e di un revolver “da borsetta” che mi ero fatto dare da un religioso di Montegiove, una robina che bastava giusto per dare il pretesto ad essere fucilato). “E se mi fermano e guardano nella valigia?”.
Giunto a Cagli già sentii di aver fatto il più. Ero in zona ed ormai “preso in forza” (si fa per dire) dall’organizzazione clandestina. Attesi un paio di giorni ospite di una coppia anziana e straordinariamente cordiale: mai una domanda. Non ci volle molto per capire che almeno il marito era un “iscritto”. Stetti tutto il giorno nella piccola cucina attorno al camino dove facevano ardere, più adagio possibile, due ciocchetti di legna. La donna radunava ogni tanto la cenere come se non volesse lasciarne scomposto neanche un granello.

 

Un incontro pericoloso

Sul tardi della seconda sera volli uscire (commettendo un’imprudenza: “Tanto non mi conosce nessuno” pensai). Neanche a farlo apposta uno dei pochi amici che avevo incontrato al Nolfi a Fano (un po’ fascista ma non tale da denunciarmi) mi venne incontro: “Toh, anche tu vai in montagna? Anche tu vai a “fare il ribelle”. Ne sono venuti altri da Fano… Ti accorgerai che da noi fa la neve…”. Mi vanto sempre (con me stesso) di essere stato all’altezza della situazione (come si dice) e di aver recitato benissimo. “Che ribelle ribelle, che disertore disertore: il comando mi ha mandato in borghese perché vuol capire il perché quasi tutte le reclute di Cagli hanno disertato. Hanno” incaricato me: mica potevano mandare uno sconosciuto”. Avendo capito che la bugia attaccava volli perfezionare il ruolo: “Anzi, dal momento che non so io stesso cosa fare se vuoi dire agli interessati che conosci che non si facciano vedere tanto in giro…”. Così lo salutai ed entrai, spavaldo, al bar che stava (ci sta ancora?) all’angolo nord della piazza. Tempo di aspettare il caffè e di berlo che la sala biliardo si svuotò e ai tavoli restarono solo gli anziani.

 

I nuovi compagni

Incontrai gli altri nel giro di un paio di giorni. Stavano sparpagliati nelle case dei contadini per ovvie ragioni di sicurezza. Nella casa di Dindiboia trovai Sandro, compagno di scuola, e poi i due Gianni (Giannetto Dini, Gianni Pierpaoli) di due o tre anni più giovani di me: erano ragazzi perché io avevo appena compiuto vent’anni. Infine Vincenzo, il comunista più radicale di tutti. Il comunismo gli era entrato nel sangue dalla famiglia. Uno zio aveva combattuto nelle Brigate internazionali in Spagna. Lo conobbi a Liberazione avvenuta. Potevi dire qualsiasi cosa: non faceva un sorriso neppure per sbaglio. Tolto Vincenzo eravamo tutti studenti del Magistrale di Fano. C’erano anche due slavi. Uno di nome Drago avvolto in un impermeabile che del bianco aveva solo una traccia (ed era bene perché così poteva mimetizzarsi meglio). Un russo allampanato che sghignazzava non appena gli sembrasse necessario. Socializzava molto poco: appariva e spariva quando meno uno se lo aspettava.

 

Max un personaggio ebreo tedesco

Vero personaggio era Max: “Io tetesco: io ebreo tetesco… “. Tarchiato e sbilenco con le gambe arcuate che gli facevano un’ondeggiante andatura da papero a completare la figura certamente comica almeno esteriormente. Il cappello era una bombetta di quelle che usavano alla fine del secolo.
Chissà mai dove l’aveva presa. Lui e tutti gli altri non italiani venivano dai campi di concentramento dall’aretino aperti dopo l’8 settembre. Avevano le armi che erano riusciti a portare con sé. Coperti con abiti estivi. La mia valigia di maglie e di calze fu tranquillamente socializzata.
Max qualche giorno dopo venne su con un “prigioniero”: era la guardia forestale. Con il fascio nello stemma del cappello aveva fatto impressione al buon Max, “tetesco ebreo”. Ci volle un po’ per convincerlo che col fascismo c’entrava poco e quando la guardia fu “liberata” Max ci guardò storto.
Eravamo partigiani “appena nati” e la pretesa di impegnare tedeschi e repubblichini era irrealistica. Ma loro non sapevano mica quanti eravamo! Dopo alcune settimane tornai a Fano e da Cesarin ebbi l’ordine del Comitato di liberazione nazionale di incaricarmi per i Gruppi armati partigiani. A Cantiano vennero altri ed alcuni morirono.

 

Imparai a patire il freddo e la fame, e la paura

Io imparai, prima ancora che la guerra, a patire il freddo e la fame. E debbo anche aggiungere la paura. Pensavo che se da Fano o da Pesaro o da Urbino fossero arrivati i repubblichini, anche in pochi ma bene armati, ci avrebbero presi tutti perché ognuno di noi aveva, al meglio, un vecchio fucile con un paio di caricatori (una dozzina di pallottole).
Ma Cantiano ci proteggeva.
1998

Valerio Volpini

 

Per Leopoldo Elia

 

Fano ha ricordato Leopoldo Elia al Teatro della Fortuna il 3 ottobre 2009 con una “lectio magistralis” del prof. Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale, su “Leopoldo Elia, difensore lungimirante e intransigente della Costituzione”. Iniziativa della Fondazione Cassa di Risparmio di Fano.

 

MONUMENTI D’ARTE TRAVOLTI DALLA GUERRA
FANO SENZA CAMPANILI

di Leopoldo Elia

Chi s’affaccia a rimirare Fano da una delle ridenti colline che con lieve declivio a modo di vaghe terrazze digradano verso il mare, resterebbe dolorosamente meravigliato non scorgendo più i robusti e snelli campanili che davano alla ridente città adriatica una fisionomia tutta propria e caratteristica.
Ma la barbarie tedesca, in rapida fuga verso il Nord, ha voluto perpetrare uno dei più efferati e gratuiti delitti; i germanici, così orgogliosi della loro “Kultur, hanno crudelmente abbattuto questi magnifici monumenti, che la pietà e l’arte degli avi nostri avevano innalzato.

I campanili rovinano sulle Chiese

E la loro ipocrisia risulterà più lampante quando si consideri che al Vescovo, giustamente angosciato per la sorte di tanti edifici sacri, assicuravano che nel deprecato caso delle demolizioni dei campanili, queste “sarebbero state eseguite con le maggiori precauzioni, in modo che in nessun caso le Chiese avessero dovuto subire spiacevoli danni”. Evidentemente le precauzioni prese dagli scrupolosi guastatori sono state tante, che i campanili nella loro caduta hanno anche rovinato molto gravemente le Chiese sulle quali sono piombati.

 

Santa Maria Nuova e S. Paterniano

Primeggia fra i monumenti quattrocenteschi famosi, la Chiesa di Santa Maria Nuova, rimaneggiata all’interno in epoca barocca, con un grazioso portale del Rinascimento.
Il prezioso coro ligneo intarsiato del ‘400 è stato distrutto insieme alla volta dell’abside nell’abbattimento del campanile, anch’esso di notevoli proporzioni.
Il bel tempio cinquecentesco di S. Paterniano vantava una delle più eleganti e snelle torri campanarie delle Marche, opera, se non compiuta, certo ispirata alla genialità del Sansovino, a cui da taluno è attribuita. Bifore bellissime alleggerivano in alto la mole gloriosa che il 20 agosto 1944 trascinava nella sua rovina anche la classica abside della Chiesa.

 

La torre campanaria del Vanvitelli

Nel Settecento gli uomini più ragguardevoli di Fano, non perdonando né a fatiche né a spese, vollero dotare la loro piazza principale, già ricca del Palazzo della Ragione e di una graziosa statuetta in bronzo della Fortuna, di una grande torre campanaria con orologio (gli studi di Mons. Riccardo Paolucci pubblicati su “Studia Picena” trattano l’interessante storia di questa costruzione): l’opera venne affidata al più reputato architetto di quei tempi, il Vanvitelli, che elevò a fianco del vecchio edificio duecentesco una mole solenne e maestosa, gioiello di sereno equilibrio e di grazia decorosa; così Fano poteva mostrare una piazza tra le più belle d’Italia. Ora essa accoglie un cumulo di giganteschi blocchi di laterizi e di pietra che neppure l’opera distruttrice della dinamite è riuscita a disintegrare.
Altri campanili di minore importanza e cioè quelli di Sant’Arcangelo e di San Domenico subirono lo stesso barbaro trattamento.

 

Più feroci di Totila

Questi sono i ricordi che la civiltà germanica, instauratrice di un preteso ordine nuovo, ha lasciati all’antica città picena: distruzioni senza dubbio più nefande di quelle compiute tanti secoli fa dagli antenati dei moderni tedeschi: i Goti di Totila, perché compiute con così fredda e disumana ferocia in un’era che pur si vantava civilissima.
Nessuna ragione militare imponeva la distruzione di tanti monumenti, lo ripetiamo ancora una volta; ciò è comprovato dal fatto che se il motivo della loro demolizione fosse stato il timore che essi servissero agli Alleati come osservatorio, timore d’altronde ridicolo dati i mezzi moderni di osservazione aerea, i campanili stessi avrebbero dovuto essere mozzati fino al livello dei tetti degli edifici vicini, non già fatti saltare dalla base: ma i tedeschi non erano animati da lacuna preoccupazione militare, giacché lasciarono intatte le varie caserme della città, quindi l’atto di sfregio alla religione e all’arte ricade senza possibilità di attenuanti sull’empio capo di chi lo ha compiuto.

 

Lo sgombero di Fano per saccheggiarla

Additiamo ai futuri inesorabili giudici uno dei peggiori criminali di guerra, il responsabile di tanto gratuito delitto: il tenente germanico Fischer, che dopo aver ipocritamente ordinato dal giugno lo sgombero della città col pretesto dei pericoli cui sarebbero andati incontro i cittadini rimanendovi, poté compiere con comodità la sua opera di saccheggio e di sistematica distruzione.
A questo punto mi sia lecito rivolgere un fervido appello non solo a tutti i fanesi sparsi per il mondo, ma anche ad ognuno che sia amante del bello realizzato nelle pure forme dell’arte, perché in ogni maniera si aiuti chi si è già posto nella città mutilata alla difficile ma necessaria opera di ricostruzione.

 

Appello ai fanesi nel mondo e al club Fano di New York

Questo appello trasvoli anche gli oceani e giunga ai soci di quei club di New York, che nel nome di Fano si intitola. Esso trae origine da un celebre carme del grande poeta inglese Robert Browning, intitolato “L’angelo”, ispiratogli dal bellissimo quadro del Guercino che egli ammirò nella città adriatica, collocato nella Cappella Nolfi della Chiesa di S. Agostino, oggi purtroppo chiusa al culto per danni di guerra. Chi inviava da Fano una cartolina riproducente l’Angelo, veniva automaticamente iscritto al club.
Fano ha quindi molti amici, anche oltre Oceano, e a tutti essa fa sentire la sua voce dolente perché dalle rovine di oggi risorga più bella in un prossimo domani.
21 gennaio 1945
Leopoldo Elia