Fanocittà | Festival Digitale Valerio Volpini e la Resistenza, 25-31 luglio 2013
UNA PASQUA CLANDESTINA: A MONTE GIOVE CON VALERIO VOLPINI
di Aldo Deli
Correva la primavera del 1944. Quell’anno la Pasqua era stata “alta”. Noi disertori dell’esercito della R.S.I e partigiani l’avevamo festeggiata, come tutti, un po’ in sordina.
Valerio qualche giorno dopo mi disse: “Dobbiamo ‘prendere Pasqua’ e fare la Comunione”.
Non era un problema; il Seminario Regionale, luogo sicuro per noi, era lì vicino e ci avrebbefacilmente ospitato per una breve permanenza.
Ma Valerio continuò: “Andremo a Monte Giove, lì ci sono solo i frati e ci staremo per un giorno intero, così avremo anche modo di riflettere con calma”. Si vede che nel suo animo c’era ancora nostalgia per i ritiri spirituali tante volte fatti lassù.
Valerio era il comandante del distaccamento partigiano fanese, io ero in qualche modo il suo aiutante: entrambi provenivamo dalla F.U.C.I., la Federazione Universitaria Cattolica Italiana. Bene, si decise per Monte Giove. Per non dare nell’occhio andammo, una mattina di buonora, solo noi due. Le inseparabili biciclette, inservibili da Rosciano in su (la “costa” per arrivare all’eremo è piuttosto lunga), ci sarebbero invece state utili per il ritorno e pertanto non ce ne separammo. Mentre salivamo parlammo a lungo delle nostre responsabilità sia verso chi faceva parte attiva della Resistenza (un centinaio di persone) sia verso la popolazione, in grandissima parte sfollata dalla città e sistemata nelle case e nei villaggi di campagna. Era costante preoccupazione di Valerio non coinvolgere i civili in atti di guerra, evitando quei colpi di testa che provocavano da parte tedesca, lo sapevamo da vari racconti, feroci e selvagge rappresaglie.
Suonammo alla porta dell’eremo; venne ad aprire don Michele, il padre “cellerario”, cioè l’economo della comunità monastica; ci conosceva bene e ci accolse con grande affabilità. Spiegammo il perché della nostra visita; ci portò subito in chiesa e fu lui stesso ad ascoltare la nostra confessione e a somministrarci la Comunione.
Intanto qualche altro camaldolese, incuriosito, venne e ci propose di salire sul campanile; così, per passare un po’ di tempo. Salimmo e dopo poco fummo involontari testimoni di un bombardamento aereo dalle parti di Pesaro. La città non si vedeva, ma il brontolio degli scoppi e le dense nuvole di fumo che, grigiastre, si alzavano verso il cielo erano troppo eloquenti: per essere liberi bisognava sopportare i bombardamenti dei liberatori, che strana guerra!
Con padre Michele parlammo a lungo del fronte che lentamente avanzava e dell’attesa degli “alleati”. Il buon padre non sospettava che di lì a poco tempo l’eremo (che già custodiva preziosi codici della Federiciana) sarebbe diventato rifugio per molti, nonché il bersaglio di qualche colpo d’artiglieria!
A mezzogiorno ci fu offerto il frugale pranzo a base di verdura, poi ancora padre Michele ci portò nella sua cella per una specie di ritiro spirituale.
Venne il tramonto e noi due prendemmo la via di casa. Avevamo “preso Pasqua” e andavamo sereni incontro al nostro destino che, per grazia di Dio, fu felice. Ma questo lo capimmo in seguito.
(2002)
Aldo Deli
(in “I merli di Fano“, op. cit., pp. 218-9)