26. POST FESTIVAL DIGITALE “VALERIO VOLPINI E LA RESISTENZA”
ENRICO MATTEI CAPO PARTIGIANO
di Angelo Paoluzi
La fotografia è storica: Milano, 5 maggio 1945, i dirigenti partigiani aprono il corteo che festeggia la liberazione dal nazifascismo. Ci sono Ferruccio Parri, Raffaele Cadorna, Luigi Longo, Giovanni Battista Stucchi, Mario Argenton e, con loro, Enrico Mattei, che rappresenta i combattenti cristiani per la libertà.
5 maggio 1945 a Milano
Mattei ha 43 anni, un passato di medio imprenditore che si era fatto strada con le sue forze e che aveva chiuso, nel settembre 1943, l’azienda di cui era proprietario per non dover lavorare per i tedeschi. Nato ad Acqualagna, in provincia di Pesaro, da famiglia abruzzese (il padre, Antonio, sottufficiale dei carabinieri, era stato protagonista della cattura del brigante Musolino), nelle Marche aveva cominciato a organizzare nuclei di resistenza agli invasori ed ai loro complici fascisti, prima di trasferirsi a Milano, dove mise in piedi le prime “Brigate del popolo” di ispirazione cattolica e democratico-cristiana che operavano al Nord.
Fare il capo partigiano
Dopo la fucilazione dell’avvocato Galileo Vercesi, rappresentante dc nel comando generale delle forze partigiane, nell’estate del 1944 fu invitato a prenderne il posto come vice capo di stato maggiore addetto all’intendenza. Non era un incarico facile, perché il mondo al quale Martini Mattei doveva riferirsi non aveva una solida struttura centralizzata e politicizzata, come quella di comunisti, azionisti e socialisti che l’avevano rodata attraverso anni di resistenza, esilio, persecuzioni e condanne. Essa però affondava le radici nella società civile e aveva messo in atto una serie di iniziative spontanee (si pensi a tutta la rete di soccorso ai ricercati, ai renitenti alla leva, ai prigionieri, agli ebrei) ma scoordinate e difficili comunque da tradurre in termini di partecipazione alla lotta armata e di collegamento organico fra reparti operanti alla macchia.
Il suo talento manageriale
Qui fu prezioso il talento manageriale di Mattei che, accanto al coraggio fisico in rischiose trasferte, lo sollecitava alle missioni, dall’Emilia al Veneto al Piemonte, di raccordo fra i gruppi, di rifornimenti di materiale bellico e di cibo, di presenza sul posto, di raccolta di informazioni, di coinvolgimento di preti e parrocchie. Este, Monti, Leone, Marconi furono i suoi nomi di battaglia: averne molti lo salvò da guai peggiori quando, il 26 ottobre ’44, i poliziotti fascisti lo arrestarono a Milano insieme con altri membri del Comitato di Liberazione Alta Italia. Cercavano Marconi, il tesoriere del CLN, e trovarono Monti, per loro molto meno interessante.
In prigione a Como
Dalla prigione di Como, dove era stato portato, riuscì a fuggire il 3 dicembre successivo, con l’aiuto del cappellano del carcere. Invece di rifugiarsi in Svizzera (come facevano in genere gli evasi d’alto rango, anche perché “bruciati” dall’arresto), tornò a lavorare al comando generale, nel ruolo di rappresentante dei partigiani cristiani, che controllava, oltre le Brigate del popolo, anche il Raggruppamento divisioni Alfredo Di Dio, le Osoppo, le Fiamme Verdi della Brianza, della Val Camonica e della Valtellina, i gruppi di alcune città dell’Emilia (Parma, Reggio Emilia e Modena), del Piacentino e altre formazioni minori. Senza contare la presenza di cattolici fra gli autonomi (in particolare quelli di Mauri in Piemonte) e nelle stesse Brigate garibaldine, come in Liguria.
I cristiani nella lotta partigiana
La partecipazione dei cristiani alla lotta partigiana trova un riscontro nell’atteggiamento generale della Chiesa di fronte alla caricatura di fascismo che fu il regime di Salò, non riconosciuto dal Vaticano e respinto dalla coscienza comune. Un alto ufficiale tedesco rimproverò a un vescovo che “l’85 per cento dei preti sono contro di noi”; e avrebbe potuto aggiungere la silenziosa complicità del mondo rurale, intriso di valori religiosi, che sfamava i partigiani e dava rifugio a prigionieri, perseguitati e fuggiaschi. E ciò rendeva meno arduo il compito di chi si batteva contro l’invasore e i suoi servi.
1946 in politica
In questo modo Enrico Mattei poté presentare a un congresso del suo partito, nel 1946, il bilancio della presenza cattolica nella Resistenza: 65mila fra uomini e donne (nonostante tentativi di parte di ridurre il numero per accreditare unilaterali egemonie), raggruppati in 181 unità e saliti a 80mila nei giorni dell’insurrezione, con 2000 morti e 2500 feriti. Registriamo che la fraterna unità di tutte le forze che avevano partecipato alla lotta ebbe il merito di aver collaborato alla vittoria finale degli Alleati impegnando in Italia sino a nove divisioni tedesche e la totalità delle unità militari della Repubblica di Salò.
Il testimone di 70 anni fa
A settant’anni da un’epoca che sancì il rifiuto del fascismo da parte degli italiani, forse troppo a lungo silenziosi o conniventi, è giusto ricordare la figura di Enrico Mattei come combattente della libertà, al di là di quanto operò in seguito come grande manager di Stato. Da esponente della Resistenza si è trovato in sintonia ideale con le grandi figure di martiri che i partigiani cattolici hanno espresso, da Giancarlo Puecher a Teresio Olivelli a Ignazio Vian, da Giorgio Catti ai fratelli Di Dio, da Filippo Beltrami a Giacomo Ulivi; è passato attraverso la prova, il rischio, il timore di chi impegnava la propria vita in una partita che non si sapeva come sarebbe andata a finire. Ha meritato la riconoscenza degli italiani, non soltanto cristiani, per aver collaborato alla vittoria della democrazia e della libertà.
Il combattente
Nella motivazione della medaglia che gli fu concessa dal generale Mark W. Clark, comandante della 15.a Armata, si riconosce l'”azione eroica riguardante le operazioni militari contro il nemico dal 1° marzo al 2 maggio 1945… Malgrado la scarsità delle armi e di equipaggiamento, intralciò sempre il nemico con continui atti di sabotaggio e con attacchi su convogli e truppe. Dimostrando sorprendente abilità e talento, unitamente a grande lealtà ed eroismo…”.
Angelo Paoluzi